Le diplomazie del mondo, perfino dell’Est comunista, si mobilitarono per il Concilio. La diplomazia USA naufragò. Il ministro della giustizia Robert Kennedy era un uomo di fede, un cattolico praticante. Eppure, neanche i cattolici Kennedy, assorbiti dalla guerra fredda e da come gestire le contraddizioni della rampante crescita economica degli USA, e gli squilibri sociali del paese, riuscirono a capirne l’importanza. Mal consigliati dall’entourage. (E.C.)
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Umberto Gentiloni – Vatican Insider 11/10/2012
Roma
Sembra impensabile che il più cattolico tra i presidenti Usa possa sottovalutare la portata del Concilio Vaticano II, che dal Dipartimento di stato si arrivi a sostenere la tesi di un «meeting pittoresco», di scarso interesse. Il padre di John Kennedy, Joseph, aveva rappresentato gli Stati Uniti nel 1939, in occasione dell’investitura di Pio XII. L’ascesa di JFK aveva già fatto i conti con l’eredità e il peso del trascorso familiare, con legami e simpatie oltre Tevere.
Come comportarsi pochi anni dopo? Quali atti dall’inquilino della Casa Bianca al pontefice del Concilio? Il primo segretario dell’Ambasciata Usa a Roma scrive al Dipartimento di stato nei giorni che precedono l’inaugurazione. Tono preoccupato, contenuto approssimativo: «Come il Dipartimento saprà, Papa Giovanni XXIII ha convocato un Concilio Ecumenico che inizierà i lavori in Vaticano l’11 Ottobre 1962.
La Chiesa Cattolica Romana e in generale il mondo Cristiano attribuiscono un grande significato a questo incontro. Le scelte su questioni esclusivamente religiose potranno avere un risvolto politico. L’Ambasciata riferirà. Tuttavia in assenza di relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e la Santa Sede, la maggior parte delle informazioni dovrà essere ottenuta dalla stampa o attraverso la disponibilità del personale Vaticano, del Corpo Diplomatico, o di diversi ambienti romani». Meglio non aprire all’ufficialità dei canali di rappresentanza.
Nella replica del Dipartimento si affaccia un interrogativo grottesco «non è chiaro quale potrebbe essere il rapporto di utilità tra la politica statunitense e quel pittoresco meeting». L’invito del papa a Kennedy per l’inaugurazione rimase un auspicio irricevibile. Fanfani (il 6 settembre 1962) con il vicepresidente Johnson perorò la causa della partecipazione: «Il Vaticano II avrà grande importanza politico-religiosa e sorprenderà il mondo con la sua grandezza»; se Kennedy non poteva recarsi a Roma per ragioni di opportunità, il vicepresidente poteva degnamente rappresentare gli Stati Uniti.
Ma il muro del rifiuto non viene scalfito, nonostante un’azione diplomatica trasversale e costante. A metà settembre, poche settimane prima dell’inaugurazione, si diffonde una voce informale: il Presidente a Washington ha deciso, nessuna delegazione ufficiale parteciperà all’evento.
Il Dipartimento comunica istruzioni per chiudere la pratica: «In via riservata, l’Ambasciata dovrebbe rispondere alla richiesta del Vaticano affermando che il Governo degli Stati Uniti non ha intenzione di essere rappresentato ufficialmente alle cerimonie di apertura del Concilio Ecumenico. In passato non abbiamo autorizzato l’invio di alcuna delegazione a incontri convocati da gruppi religiosi e riteniamo che la presenza degli Stati Uniti sarà garantita in maniera privata e riservata dai leader americani, Cattolici e Protestanti. Nutriamo la più grande simpatia per gli sforzi del Concilio nella misura in cui sono rivolti ad affrontare i problemi religiosi».
Ma Giovanni XXIII non si rassegna; il 3 ottobre 1962 un suo emissario, monsignor Prigione, si presenta alla Casa Bianca. Solo allora Kennedy accoglie le ragioni dei suoi interlocutori; una delegazione prenderà parte alla cerimonia senza enfasi «meglio non indossare il frac» preferibile sfoggiare un «sobrio, laico abito scuro di routine».
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