ALAN RUSBRIDGER – L’Europa e la crisi (3) – L’economia a due velocità indebolisce l’Unione

La Repubblica – 27 gennaio 2012

QUESTA settimana un giornalista veterano del Guardian, per lunghi anni corrispondente da Bruxelles, ha fatto un’ osservazione interessante: gli Stati europei, ha detto, sono tutti piccoli; ma mentre quelli di dimensioni minori lo ammettono, i più grandi rifiutano spesso di riconoscerlo. Di fatto però è proprio questo il motivo per cui abbiamo bisogno dell’ Unione europea, nata nel dopoguerra grazie alla consapevolezza di tutti gli Stati, piccoli e grandi, che la cooperazione europea fosse di gran lunga preferibile a un conflitto catastrofico. E a rafforzare questo convincimento si è preso atto, in epoca più recente, che a fronte della globalizzazione seguita alla guerra fredda, un’ Europa unita sarebbe stata assai più forte della somma delle sue parti. Tutto ciò rimane vero. Il Guardian ha sempre condiviso questa consapevolezza. Siamo internazionalisti da quasi due secoli.

Abbiamo sostenuto con coerenza l’ adesione della Gran Bretagna all’ Unione Europea, posizione questa pagata a volte con l’ isolamento nell’ arena politica britannica. Ma ciò non vuol dire che il nostro giornale abbia sostenuto acriticamente ogni momento dello sviluppo europeo. La nostra idea dell’ Europa è a un tempo ideale e pragmatica. L’ autore è direttore del “Guardian” Per lungo tempo abbiamo visto con scetticismo la retorica di un’ Unione sempre più stretta, a fronte della realtà e delle perduranti differenze nazionali. In particolare, siamo sempre stati estremamente cauti riguardo all’ Unione monetaria europea: un progetto economico, ma necessariamente anche politico, che non è mai stato oggetto di una riflessione approfondita e completa.

Lo abbiamo detto fin dai tempi di Maastricht, sostenendo inoltre più specificamente che la Grecia non avrebbe dovuto essere ammessa nell’ Eurozona. In senso più generale, abbiamo scritto nel 1996: «Se gli sforzi volti a soddisfare le condizioni per la convergenza e aderire al “patto di stabilità” dovessero essere la causa (anche solo apparente) dello smantellamento dei sistemi di redistribuzione e di welfare dai quali dipendono milioni di europei dei ceti meno abbienti, si rischierebbe di innescare reazioni nazionaliste e populiste anche violente in quasi tutti gli Stati membri dell’ Unione Europea».

All’ epoca queste condizioni sono state tacciate di allarmismo; ma il tempo ci ha dato ragione. Oggi l’ Ue appare in qualche modo come la causa, e non la soluzione dei problemi che la sua popolazione si trova ad affrontare. In particolare, la crisi dell’ Eurozona, che quest’ anno tende chiaramente ad acutizzarsi, almeno per certi versi, prima che si possa intravedere un qualche miglioramento, è contrassegnata da inefficienza e frammentazione. Vertice dopo vertice, si è parlato molto e concluso poco.

Se le risposte dell’ Unione Europea sono state fiacche, è anche a causa della debolezza dei rispettivi governi. Il rischio di default della Grecia è altissimo, e non si riesce ancora a capire se la Germania finirà per tentare di salvare l’ euro. Tutti i governi eletti, dalla Grecia alla Germania, reagiscono nervosamente alle proposte di soluzioni robuste o radicali, per timore delle conseguenze elettorali, e non cambieranno atteggiamento. Dunque, cosa possiamo aspettarci in queste circostanze tutt’ altro che facili? Innanzitutto, l’ Europa deve svegliarsi e prendere atto, individualmente e collettivamente, di quanto la mancata soluzione della crisi stia danneggiando la posizione globale dell’ Europa e il suo prestigio. Un danno tanto più preoccupante in questo periodo di rapidi cambiamenti nel mondo arabo – in meglio, ma talora anche in peggio – e di crescente instabilità di alcuni grandi Paesi ai confini meridionali e orientali dell’ Europa – ma fortunatamente non della Turchia.

Nei confronti del resto del mondo l’ Europa è indebolita, sia dal punto di vista dell’ hard power che nel soft power. Dobbiamo riconoscere che il modello europeo del 2012 non è particolarmente attraente. In secondo luogo, dobbiamo affrontare il problema della frammentazione dell’ Ue. L’ Unione Europea è divisa non solo tra gli Stati dell’ Eurozona e gli altri, ma anche tra le aree dell’ Eurozona che continuano a vantare la tripla A, con la conseguente facilità di ottenere prestiti, e quelli che collocano i propri titoli con più difficoltà, e sono quindi costretti ad accettare le condizioni stabilite dagli stati con il rating più elevato. L’ antagonismo tra queste due aree dell’ Eurozona era già netto nel 2011, ma quest’ anno rischia di aggravarsi: e neppure sembra facile superare le divisioni tra l’ Eurozona e il resto dell’ Unione, Gran Bretagna compresa.

La frammentazione accresce il potere di gruppi intergovernativi, in opposizione alle istituzioni paneuropee e alle posizioni complessive dell’ Ue. La Gran Bretagna ha contribuito purtroppo a creare questa situazione. Tutto ciò deve cambiare. Va detto chiaramente che un’ Europa a due velocità è un’ Europa più debole. Se è vero che date le dimensioni dell’ Ue, ciascuno dei suoi Stati ha le proprie specificità nazionali, la posizione della Gran Bretagna in seno all’ Europa non può che essere fonte di ansia. A quarant’ anni dalla sua adesione, il sostegno all’ Ue non era mai sceso a livelli così bassi, né l’ influenza britannica sull’ Europa era mai stata così debole. Le ragioni di questa situazione sono molte. Sull’ integrazione europea la Gran Bretagna ha da sempre un atteggiamento troppo negativo. I nostri dibattiti interni in materia sono sempre stati particolarmente aspri, anche a causa dell’ influenza dei media britannici. Non abbiamo saputo individuare correttamente i nostri interessi, né tutelarci attraverso alleanze forti, in particolare con la Germania, e abbiamo dedicato invece troppa attenzione a costruire alleanze con gli stati periferici dell’ Ue. Il Vertice del dicembre 2011, ove David Cameron si è totalmente isolato, è stato un disastro per la Gran Bretagna, ma nei sondaggi la sua popolarità è salita alle stelle.

Non è affatto escluso che la Gran Bretagna indica un referendum sul mantenimento della sua adesione all’ Ue, né che la maggioranza opti per la sua uscita. Di fatto, la tendenza britannica a spostarsi sempre più ai margini dell’ Ue riflette tutta una serie di timori dell’ opinione pubblica, che sono però diffusi anche in altri Paesi europei. La percezione che i “poteri di Bruxelles” siano eccessivi e troppo distanti, così come le preoccupazioni suscitate dall’ immigrazione e dalla mancata soluzione della crisi dell’ Eurozona sono molto forti da noi, ma rappresentano un’ esclusiva della Gran Bretagna. Sono ancora troppo pochi gli europei che si sentono cittadini dell’ Ue. E finché questo dato non cambierà, l’ Europa sarà sempre vulnerabile al voto degli europei scontenti, e non a torto. Si è facilmente tentati di drammatizzare gli attuali problemi dell’ Europa. Ma c’ è un altro modo di vederli. La Grecia nonè ancora fallita, l’ Eurozona non si è ancora disintegrata. Le nazioni europee con economie non competitive, ivi compresa l’ Italia, sono riuscite finora a mantenersi a galla.

I rendimenti dei titoli di Stato non hanno ancora superato il punto di non ritorno. Certamente si dovranno prendere decisioni difficili. Ma la partita che l’ Unione Europea sta giocando è tuttora in corso; e in molti Paesi non si è smesso di credere che insieme siamo più forti. Certo, gli europei non hanno di che rallegrarsi; ma finora non si sono ribellati contro le dure decisioni che si sono imposte ai governi. Forse lo faranno. Forse dovrebbero farlo. Ma se l’ Europa procederà gradualmente verso l’ attuazione delle riforme strutturali che getteranno le basi della futura crescita, e se la Germania saprà risolversi a compiere i passi necessari per assicurare la sopravvivenza dell’ Eurozona, possiamo sperare in un’ Unione più debole ma anche più saggia, capace di sopravvivere per ritrovare, in tempi migliori, la prosperità. Io ho questa speranza. Traduzione di Elisabetta Horvat –

ALAN RUSBRIDGER – Direttore del “The Guardian”

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