di Jane Adolphe*
ROMA, domenica, 9 dicembre 2012 (ZENIT.org)
Gli indefiniti termini “orientamento sessuale” e “identità di genere” non rappresentano un linguaggio unanimemente accettato nei diritti umani universali. Queste definizioni sono vaghe, ambigue e altamente soggettive. Di conseguenza, esse violano il principio di certezza legale. Riconoscendo la differenza fondamentale tra desideri, sentimenti, pensieri e inclinazioni, rimangono, necessariamente, praeter ius (al di fuori della legge). Come tali non hanno avuto alcun riconoscimento come parte del diritto internazionale consuetudinario, né come principi generali di diritto e nemmeno come trattati.
Nonostante l’opposizione di molti Stati membri delle Nazioni Unite, l’“orientamento sessuale” e la “identità di genere” sono diventati materia di una Risoluzione non vincolante del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (CDU). La Risoluzione ha commissionato uno studio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU (ACDU) “che documenta discriminazioni, in leggi, pratiche ed atti di violenza contro individui sulla base del loro orientamento sessuale e della loro identità di genere” (Consiglio per i Diritti Umani, 14 luglio 2011). La risoluzione del CDU ha anche previsto una tavola rotonda che sarà convocata durante la 19° Sessione per informare gli Stati Membri “riguardo i fatti” del rapporto dell’ACDU e “avere un dialogo costruttivo, informato e trasparente”.
I seguenti Stati hanno fornito dichiarazioni verbali in opposizione alla Risoluzione: il Pakistan ha espresso preoccupazione per la scelta del CDU di discutere nozioni controverse che non avrebbero alcuna base di diritto internazionale né di diritti umani internazionali; la Nigeria ha argomentato che più del 90% dei paesi africani non hanno sostenuto la Risoluzione e che nuove nozioni sono state imposte a vari paesi; il Bahrain ha condannato il tentativo di trattare argomenti controversi, basati su decisioni che non costituiscono diritti umani fondamentali; il Bangladesh ha posto l’accento sulla mancanza di qualunque fondamento legale alla Risoluzione sugli strumenti dei diritti umani e ha espresso la propria costernazione per l’attenzione agli interessi personali sessuali; il Qatar asserisce che la Risoluzione mostra una mancanza di rispetto per la diversità culturale, la libertà religiosa e la responsabilità degli Stati di mantenere l’ordine e la morale pubblica (art.29 UDHR); la Mauritania ha evidenziato che la materia della Risoluzione sarebbe fuori della portata del diritto internazionale (vedi comunicato stampa del Consiglio per i Diritti Umani, 17 giugno 2011).
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani ha concluso il suo rapporto intitolato Discriminatory laws and practices and acts of violence against individuals based on their sexual orientation and gender identity (A/HRC/19/41, 17 novembre 2011) [in seguito: “Il rapporto”]. Il rapporto, lungo 25 pagine, è diviso in sette sezioni: introduzione, norme e obblighi internazionali applicabili, violenza, leggi discriminatorie, pratiche discriminatorie, risposte emergenti, conclusioni e raccomandazioni.
Non offre alcuna definizione di OS (orientamento sessuale) e di IG (identità di genere) ma, con una sorta di trucco, il mandato viene modificato per introdurre un altro tema, cioè i “nuovi diritti” appartenenti ai personali interessi sessuali di un gruppo di pressione che si auto-identifica con lesbiche, bisessuali, transessuali e intersessuali (LBGTI). Il rapporto è ricco di nuove espressioni: “omofobico”, “transfobico”, “minoranze sessuali”, “omofobia sponsorizzata dallo Stato”, “identità di genere eteronormativa”, “percezione dell’omosessualità” o “percezione dell’identità transgender”. Inoltre, il termine “genere” comunemente usato a livello internazionale per indicare femmina e maschio o uomini e donne viene ridefinito, quando si dice che “omofobico” e “transfobico” sono forme di violenza basate sul genere (par. 20).
Il rapporto sostiene che l’applicazione del diritti umani internazionali è guidata dai principi di “universalità, uguaglianza e non-discriminazione”, ma dopo si contraddice, e sostiene che la non-discriminazione è un diritto, non un principio (par. 15). A sostegno di questi tre principi (o due principi e un diritto), il rapporto cita l’art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU), ma solo in parte: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
In risposta, il rapporto omette di citare per intero l’art. 1 della DUDU ed emargina le caratteristiche chiave che tutti noi condividiamo come esseri umani e persone umane. Il Rapporto, in sostanza, nega una natura umana universale e mette in discussione il fondamento stesso del sistema internazionale dei diritti umani. Cinque questioni essenziali sono da sottolineare qui. In primo luogo, la DUDU riconosce “dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili” (Preambolo, comma 1). È chiaro che il principio della dignità inerente è fondamentale. In secondo luogo, offre le caratteristiche essenziali della persona umana che ci rende uguali, mentre allo stesso tempo ci distingue da piante ed altre creature. L’art. 1 per intero recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. In altre parole, ogni essere umano, per il solo fatto di essere umano, è una persona, che, per natura, è relazionale e “dotata di ragione e di coscienza”, personalmente responsabile di cercare la verità e rispondere alla chiamata interiore di fare il bene. Terzo, il termine “nato” nell’art. 1 si riferisce ad una “nascita morale” – una “più profonda qualità morale”, che nessuna persona umana, corpo politico o corpo sociale potrebbe concedere (Morsink, 291-292). Questa comprensione è coerente con il fatto che le persone umane sono anche diverse e non sono fisicamente nate in uguali circostanze. Quattro, la DUDU riconosce i doveri verso gli altri e la comunità, nonché la limitazione dei diritti “per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica” (art. 29). Cinque, la DUDU è il documento fondamentale per la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (CIDCP) e il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (PIDESC), che, come la DUDU, riconoscono chiaramente che “i diritti derivano dalla dignità inerente della persona umana” (rispettivamente Preambolo par. 2), che i diritti sono correlati ai doveri (rispettivamente Preambolo par. 5), e che i diritti possono essere limitati per legge (rispettivamente art. 4). In sintesi, questi tre documenti, comunemente indicati come la Carta Internazionale dei Diritti Umani, non concedono i diritti ma semplicemente li riconoscono; riconoscono i diritti e i doveri nonché i loro limiti, e fondano i diritti e doveri nella dignità umana inerente alla persona umana, maschio e femmina, per natura dotata di ragione e di coscienza.
Chiara opposizione deve essere espressa contro l’arresto e detenzione arbitraria, contro esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti di ogni membro della famiglia umana, senza alcun bisogno di un elenco. Il diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della persona è protetto ed esistono divieti di tortura ed altri trattamenti inumani, così come gli arresti arbitrari e la detenzione: DUDU, art. 3,5,9; CIDCP, articoli 6,9,10; Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti , art. 1,2,4,16. Tuttavia, il rapporto va ben oltre che trattare atti di violenza, ma si dedica ad individuare un gruppo auto-definito “LGBTI” per speciali protezioni (par. 34-36) e la creazione di “nuovi diritti” (ad esempio il diritto al “matrimonio omosessuale”).
La relazione riconosce giustamente che i termini: “orientamento sessuale” e “identità di genere” o “percezione dell’omosessualità” o “identità transgender” non sono categorie protette nel diritto internazionale (par. 7, 8). Tuttavia, sostiene erroneamente che tali categorie “derivano da vari strumenti internazionali sui diritti umani” (par. 8). Con tale argomento, l’Alto Commissario ONU supera la sua competenza, attribuendo a categorie controverse vincolanti accordi internazionali in materia di diritti umani, i cui interpreti finali sono gli Stati contraenti (cfr. la Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, 1969) [CVDT]. Non sovviene all’Alto Commissario ONU di menzionare dichiarazioni o rapporti di entità ONU che non siano prodotti da rappresentanti degli Stati sovrani e non siano stati accettati come linguaggio unanime o principi da rappresentanti di Stati sovrani, e non costituiscono diritto internazionale.
Il Rapporto utilizza il termine “pratiche discriminatorie” in materia di impiego, assistenza sanitaria, istruzione, famiglia e così via. Inoltre fa una distinzione tra “impatto discriminatorio diretto” e “impatto discriminatorio indiretto”, che a sua volta facilita la revisione da parte dello Stato di condotta tra cittadini privati (par. 50). In risposta, la DUDU riconosce la persona umana, maschio e femmina, menzionando i “diritti uguali di uomini e donne” (Preambolo par. 5). Essa vieta la discriminazione, ad esempio, sulla base del sesso (art. 2). Tuttavia, non si può passare a determinare se uno specifico atto è discriminatorio senza prima avere una netta definizione dei termini, inclusa la fonte dei diritti umani, cioè la dignità inerente alla persona umana nell’art. 1 della DUDU. Inoltre, bisogna discernere quali atti costituiscono una discriminazione, tenendo conto dei diritti e doveri altrui (cfr. libertà di espressione, di coscienza e di religione) e la comunità (cfr. DUDU, art 29: Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale). Ad esempio, gli Stati e le società che promuovono e proteggono la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna rispettano ed adempiono i loro obblighi nel diritto internazionale (cfr. DUDU, art. 16, CIDCP, art. 23, PIDESC, art 10). Essi non si prestano a comportamenti discriminatori. Inoltre, questi Stati e società che richiedono a futuri sposi, uomini e donne, di raggiungere una certa età prima di acconsentire liberamente a sposarsi, sono limiti dettati dal buon senso e riconosciuti nel diritto internazionale (Id.). Inoltre, esiste una pletora di dati a sostegno della tesi secondo cui la famiglia naturale è il posto migliore per i bambini e non un pericolo per loro come il rapporto vorrebbe farci credere (par. 21). In ultima analisi, il rapporto fa ben poco per fornire orientamento e guida per quanto riguarda l’applicazione del principio di non discriminazione in modo tale da rendere giustizia al principio di legalità e di rispetto dei trattati, leggi e risoluzioni esistenti, nonché i diritti delle comunità religiose.
Il Rapporto chiama in causa le raccomandazioni degli organismi di controllo dei trattati. Questi ultimi non sono organi giudiziari. Le loro conclusioni prendono la forma di raccomandazioni non vincolanti designate per assistere gli stati nell’implementazione dei loro obblighi nei trattati. Quelle conclusioni non sono giudizi né costituiscono giurisprudenza, né possono rappresentare un caso, poiché i membri dell’organismo non sono tenuti ad essere degli esperti legali. Gli organismi di controllo non hanno competenza a ridefinire i termini usati nelle norme sostanziali dei loro trattati costitutivi, che pretendono di creare nuovi diritti o principi che non corrispondono all’autentico ed originale significato dei trattati. In particolare, gli organismi di controllo non possono imporre sugli stati, degli obblighi che non siano stati espressamente intrapresi dai medesimi stati nella negoziazione e nella ratifica del costituente trattato.
I trattati sui diritti umani devono essere interpretati in accordo a quanto previsto dagli artt. 31-32 del VCLT, che riflette il diritto consuetudinario internazionale. Gli organismi di controllo, quindi, devono applicare i loro strumenti costitutivi in “buona fede”, in accordo con il “significato ordinario” dei termini del trattato, “nel loro contesto e alla luce del [proprio] oggetto e scopo”. Tutti gli strumenti a disposizione di una o più parti, come le riserve e le dichiarazioni interpretative, sono, al fine dell’interpretazione di un trattato, parte del proprio “contesto” (VCLT, art. 31.2.a). Di conseguenza, i soggetti delle Nazioni Unite, i Relatori Speciali o gli organismi di controllo non dovrebbero tentare di applicare estensivamente o creativamente le disposizioni di un trattato, in violazione delle regole di interpretazione contenute nel VCLT. Tentativi di ogni organismo di controllo, in particolare, per applicare il proprio strumento costitutivo in una maniera che si allontani dal significato originale di quello strumento, provocherebbero un “cambiamento fondamentale delle circostanze”, per gli scopi dell’art. 62 del VCLT, e giustificherebbero una delle parti a denunciare i rispettivi trattati. Infine, le riserve avanzate dalle parti sugli accordi sui diritti umani internazionali escludono e modificano gli effetti legali delle disposizioni del trattato relative alla riserva. In accordo con l’art. 20 del VCLT, solo gli stati e gli organi giudiziali possono valutare l’ammissibilità di una riserva, e ai sensi delle regole di interpretazione, le riserve dello stato devono essere prese in considerazione.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani (ACNUDU) ha pubblicato un nuovo rapporto non vincolante, Nati liberi ed eguali (Born Free and Equal), che si basa sul rapporto prodotto in seguito alla risoluzione 17/19 dell’organismo. Il nuovo rapporto sostiene che “la causa per estendere a lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) gli stessi diritti di cui fruiscono tutti gli altri non è né radicale né complicata. Essa si basa su due principi fondamentali su cui appoggia il diritto internazionale dei diritti umani: l’uguaglianza e la non discriminazione” (p. 7). A sostegno, il rapporto cita – in parte – l’art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU). “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. In questo modo, il rapporto nega il fondamento del diritto internazionale dei diritti umani basata sulla dignità inerente della persona umana, dotata per natura di ragione e di coscienza con il dovere di interagire con l’altro in spirito di fratellanza. Inoltre trasforma due principi nel fondamento stesso dei diritti umani: l’uguaglianza e la non-discriminazione.
Il rapporto promuove cinque obblighi fondamentali degli Stati per proteggere i diritti umani delle persone LGBT. A questo punto l’enfasi è minore sull’orientamento sessuale identità di genere e più accentuata sui diritti del gruppo LGBT. Il testo si basa sul non rapporto non vincolante dell’ACNUDU e il documento non vincolante preparato da un gruppo di persone, che a Yogyakarta (Indonesia) hanno preparato un documento sul tema di orientamento sessuale, identità di genere e diritti umani.
I cinque principi fondamentali sono i seguenti: 1) proteggere gli individui dalla violenza omofobica e transfobica – piuttosto che proteggere tutte le persone dalla violenza; 2) prevenire la tortura e i trattamenti crudeli, inumani e degradanti delle persone LGBT – piuttosto che proteggere tutte le persone da tortura ed altri maltrattamenti; 3) decriminalizzare l’omosessualità – piuttosto che chiedere agli Stati di rivedere e valutare le loro leggi penali, prendendo in considerazione l’effetto causato dai cambiamenti nella legge, i costumi e le tradizioni comprovate, i diritti e i doveri delle comunità religiose, la tutela della famiglia naturale, le questioni di applicazione e gli obblighi dello Stato per il bene comune; 4) vietare la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere – piuttosto che proibire la discriminazione in base di razza, religione, lingua e sesso di tutte le persone; 5) rispettare la libertà di espressione, di associazione e di riunione pacifica da parte di individui LGBT – piuttosto che rispettare la libertà di espressione, di associazione e di riunione pacifica di ogni persona umana, tenendo in considerazione i limiti riconosciuti dal diritto internazionale.
Vale la pena far notare che c’è stato un cambiamento generale di argomentazione. Il diritto alla vita privata è stata la giustificazione principale utilizzata per depenalizzare i rapporti sessuali privati consensuali tra adulti dello stesso sesso. Tuttavia, dato che il matrimonio è un istituto riconosciuto pubblicamente l’uguaglianza è ormai diventata l’argomento chiave per la causa del matrimonio omosessuale. “Ma per poter prendere seriamente l’argomento dell’uguaglianza nello sviluppo della giurisprudenza matrimoniale nell’ambito delle relazioni omosessuali – sostiene il professor Robert Araujo, S.J. – devono essere superate le difficoltà fisiche per equiparare le relazioni omosessuali con le relazioni eterosessuali” (Araujo, 2010, p. 31). Araujo sostiene che “l’unico modo per compiere questo compito è quello di fare affidamento alla comprensione di ‘uguaglianza’ che non è basata sui fatti e sulla ragione, ma su un esagerato positivismo giuridico” (Idem). E prosegue: “Per essere autentica, sincera e giusta, il contenuto e la prassi di qualsiasi pretesa di uguaglianza debbono rispecchiare accuratamente la natura della persona umana – poiché questo rende le persone uguali tra di loro in un certo senso e diverse l’una dall’altra in altri sensi” (Idem).
L’argomento è il seguente: fondamentalmente, tutti sono uguali, ma in altri sensi non lo sono. Il professor Araujo, S.J., offre alcuni esempi: “mentre la maggior parte della gente ama la musica, non siamo tutti alla pari di Mozart. Inoltre, anche se la maggior parte della gente ama lo sport, non siamo alla pari dei più grandi atleti del mondo” (Araujo, 2012). Parlando di matrimonio, lo studioso aggiunge: “non siamo uguali neppure in questo senso. Se la razza umana avesse la capacità di esplorare e di colonizzare pianeti lontani, e un gruppo composto da coppie eterosessuali andasse al pianeta Alpha ed un altro gruppo composto da coppie omosessuali al pianeta Beta, e nessuno dei due gruppi avesse la capacità per la riproduzione tecnologicamente assistita, quale pianeta sarebbe ancora colonizzato tra un secolo? La logica direbbe che il pianeta Alpha lo sarà ancora, mentre il pianeta Beta non lo sarà più. L’argomento del matrimonio omosessuale per l’uguaglianza fallisce in questo senso. Le coppie sono semplicemente non uguali” (Araujo, 2012).
Ed è questo che i redattori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo intendevano dire quando dicevano che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Come indicato nella II parte, il termine “nati” nell’art. 1 si riferisce ad un parto morale, che nessun individuo o entità potrebbe concedere. Questa comprensione è coerente con il fatto che le persone umane sono intrinsecamente uguali, ma anche diverse e fisicamente nate in circostanze disuguali. Nel dibattito per i diritti LGBT, in particolare per quanto riguarda il matrimonio omosessuale, “la legge è istigata ad ignorare i fatti e a sostituire [li] con una labile finzione legale” che rende “uguale quello che non può esserlo a causa della realtà della natura umana”, la risposta, allora, chiede una “applicazione rigorosa della logica” (Araujo, 2010, p. 31). Lo stesso consiglio vale per l’argomento discriminazione, discusso nella II parte.
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Jane Adolphe è il professore associato di Diritto presso Ave Maria School of Law in Naples, in Florida.
[Traduzione dall’inglese a cura di Paul De Maeyer]
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