Globalizzazione senza regole. Un’intervista a J. Stiglitz del 2006, ancora attuale.

 

Marco Contii, La repubblica 7 novembre 2006

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Il dato di partenza è che la «globalizzazione, nelle sue forme e manifesta­zioni attuali, funziona molto male e produce un’enormità di danni. Così ho cercato di fare due cose: primo, segnalare i proble­mi irrisolti e far capire che così le cose non vanno; secondo, indi­care i correttivi da adottare per far sì che la globalizzazione eser­citi gli effetti positivi che sono nel suo potenzia­le». A passeggio per il campus della Columbia University, il Nobel per l’Economia del 2001, J0­seph Stiglitz, prova a sin­tetizzare il senso della sua nuova fatica lettera­ria: Making globaliza­tion work, pubblicato dall’editrice Norton, in uscita oggi in Italia col ti­tolo La globalizzazione che funziona (Einaudi, pagg. 336, euro 16,50; l’e­conomista sarà a Torino, alle 18 di martedì 14, nel­l’ Aula Magna del Politec­nico).

Professor Stiglitz, se il suo libro precedente (La globalizzazione e i suoi Joseph Stiglitz oppositori) era destina­to ai policy makers, ora sembra rivolgersi al variegato mondo ‘no global’, per aiutarlo a uscire dall’angolo dell’opposizione fi­ne a sé stessa. Conferma questa impressione? «In parte. E’ vero che in questo secondo libro cerco di indicare i correttivi alle principali distor­sioni del sistema, e quindi in qualche modo di infondere una maggior dose di ottimismo sulla possibilità di trasformare i pro­cessi di globalizzazione. Ma ho soprattutto cercato di descriver­ne tutte le storture, dalla distri­buzione ineguale delle risorse al­l’assoluto deficit di democrazia dei processi decisionali. Quindi, se da un lato è vero che il libro vuole offrire una prospettiva po­litica a quanti contestano la glo­balizzazione, dicendo loro “ci sono cose che si possono fare in modo molto più costruttivo che non standosene seduti a dire no su tutto”, dall’altro cerca di ri­volgersi a una platea più vasta per cercare di accrescere la con­sapevolezza dei problemi. Vede, voi in Italia avete già un movi­mento “no global” molto forte, mentre da noi, qui in America, la stragrande maggioranza delle persone accetta tutto quel che le accade intorno in modo comple­tamente passivo. E questo è peri­coloso».

Proviamo a definirli, questi processi. Che le imprese vadano in giro per il mondo alla ricerca di nuovi mercati, non è certo una novità. In cosa consiste il salto di qualità? «Nel fatto che sono saltate tut­te le regole del gioco, e che i sog­getti più forti – cioè le grandi mul­tinazionali – stanno cercando, con successo, di ridefinirle a loro esclusivo vantaggio. Una volta la ricerca del profitto era tempera­ta da vincoli geografici e politici, dagli Stati nazione, dalle leggi, dalla nascita del movimento sin­dacale, dai sistemi di protezione sociale. Oggi tutto questo sta sal­tando, e chi prende le decisioni lo fa in modo del tutto arbitrario, senza alcuna controparte. Per questo cerco di mettere in evi­denza quello che a mio avviso è il problema più grave, il deficit di democrazia. Prendiamo per esempio la questione della pro­prietà intellettuale. Lei pensa che se si mettesse ai voti una leg­ge che autorizza le case farma­ceutiche a negare ai Paesi poveri l’accesso ai farmaci per malattie gravi, di cui esiste la cura, questa legge verrebbe approvata? No di certo. E invece le cose vanno esattamente in questa direzione perché, appunto, le nuove rego­le del gioco sfuggono a qualsiasi controllo democratico. L’altro elemento dirompente è la velo­cità delle trasformazioni, che rendono difficile cercare di far fronte ai cambiamenti che im­pongono alle comunità” diretta­mente interessate».

Immagino si riferisca alla de­localizzazione delle imprese. Ma lo spostamento dei posti di lavoro dell’industria manifat­turiera dai Paesi ricchi a quelli in via di sviluppo non è, in fondo, una forma di redistribuzione del reddito da accogliere positi­vamente? «Certo che sì. Peccato che, vi­sti i soggetti interessati, si tratti di reddito che si sposta dai poveri dei Paesi ricchi ai poveri dei Pae­si poveri, cioè dai poveri ai pove­rissimi. E’ già qualcosa, ma sa­rebbe auspicabile che il processo riguardasse anche i ricchi veri, che invece non ne vengono in al­cun modo coinvolti. E poi c’è un problema in più: che ci piaccia o meno, viviamo ancora in strut­ture di tipo comunitario, che hanno meccanismi propri di so­lidarietà e di consenso. Per que­sto motivo nel libro cerco di met­tere in guardia da un rischio con­creto: che una globalizzazione incontrollata, senza sistemi di compensazione, possa alla fine suscitare delle reazioni di rigetto tali da bloccare e far regredire gli stessi processi di globalizzazio­ne».

Torniamo alla que­stione della democrazia. Lei cita la Cina, e i vinco­li che ha imposto ai flus­si di capitali a breve ter­mine, come uno degli esempi migliori di con­trasto degli eccessi della globalizzazione. Eppure la Cina tutto è fuorché un Paese democratico. «E’ vero. Ma la Cina, che ha aperto al suo in­terno un dibattito im­portante sulla compati­bilità sociale del proprio sviluppo economico, pur essendo antidemo­cratica si sta ponendo se­riamente un problema d’interesse generale sul­le condizioni di vita della popolazione. Quando sostengo che solo un investi­mento in democrazia può con­trastare le pulsioni peggiori della globalizzazione, faccio un’equa­zione molto semplice: la mag­gior parte della popolazione sta alla base della piramide sociale, e un governo democratico è più incline a tenere conto delle istan­ze di tutti. Se poi vogliamo dire che questo non è di per sé una ga­ranzia, perché le nostre demo­crazie spesso sono corrotte, que­sto purtroppo è innegabile».

Lei scrive della creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio, il Wto, come di un enorme successo. Mentre quel­l’istituzione, agli occhi di molti, è il demonio. «Questo è un esempio di quel che dicevo prima a proposito dell’esigenza, ma anche della possibilità, di modificare il corso delle cose. Certo che il Wto è un club elitario, certo che i processi decisionali al suo interno non so­no democratici, e certo che i Pae­si più ricchi cercano di usarlo per strappare condizioni di maggior favore. Sono tutte cose vere, su cui i governi prima o dopo do­vranno agire. Però quella è l’uni­ca sede esistente in cui si pren­dono decisioni, che alla fine vin­colano tutti, sulla regolazione dei commerci mondiali. Se non esistesse gli Stati Uniti sarebbero in grado di dettare legge ovun­que e contro tutti, mentre cosl sono costretti a stare al gioco: magari sbattono i pugni sul tavo­lo, ma alla fine sono costretti a ingoiare. E’ già successo in più d’una occasione».

Lei è stato per anni il chiefeco­nomist della Banca mondiale. Come ha fatto a resistere? «Se solo sapesse quanta gente n dentro la pensa esattamente come me».

 

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