Prima di tutto c’è il bene da fare e da far crescere
La morale è norma del bene per le persone. Essa insegna a vivere bene facendo il bene. Il Vangelo è via alla vita buona e ci dà norme per percorrerla. Sono qui le due polarità della morale: la persona e la norma. La persona anzitutto, soggetto dei propri atti. E la norma che li dirige al bene. La Chiesa, istruita dal Vangelo, ha assolto lungo i secoli il servizio della verità morale, insegnando norme di azioni nei vari campi dell’agire. Come in altri ambiti della teologia e del magistero – quando occorre declinare insieme due coefficienti distinti ma complementari di uno stesso assetto di vita – anche tra “persona” e “norma” si sono avuti degli squilibri, sull’una o l’altra polarità. A seguito delle sollecitazioni venute dai rivolgimenti scientifici e culturali del nostro tempo, specialmente nel campo delle cosiddette “questioni eticamente sensibili”, il magistero e la teologia hanno dovuto elaborare norme per orientare i comportamenti. La catechesi e la predicazione ne mediano l’insegnamento e la diffusione, rischiando però di limitare l’attenzione a ciò che la Chiesa autorizza o proibisce. A questa deviazione normativistica e proibizionistica contribuisce molto l’enfasi dei mass-media, che riducono la dottrina morale della Chiesa – e il suo umanesimo del “sì” – a una serie di “no”. Cosicché agli orecchi della gente arrivano perlopiù princìpi, leggi, veti, divieti. Norme fredde, rigorose: incuranti delle persone, delle loro situazioni, delle loro storie – nella unicità, singolarità, concretezza di ciascuna. In un simile habitat etico molte persone finiscono per sentirsi più giudicate che comprese, più gravate che sorrette, più colpevolizzate che accompagnate. E si perdono d’animo, s’allontanano.
Consapevole di questo sbilanciamento, Papa Francesco ha voluto riequilibrare sulla “persona” il rapporto con la “norma”. Lo fa ogni giorno con i suoi gesti, nelle sue omelie. Lo ha fatto intravedere in alcuni dialoghi-interviste. Lo ha spiegato nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, cui attingiamo in questa riflessione (che segue quella pubblicata il 20 dicembre scorso, ndr). La teologia e la catechesi in campo morale, non esauriscono il loro compito con l’elaborazione e l’enunciazione della norma. La legge è oggettiva: valet ut in pluribus, vale in generale e in astratto. L’agire è soggettivo: singolare e concreto. L’annuncio morale deve farsi carico di questa singolarità e concretezza, in ciò che essa ha di complesso, conflittuale, sofferto, drammatico per le persone. Caricarle esclusivamente del peso della norma, abbandonandole al suo giudizio, non è conforme né al messaggio del Vangelo né alla missione della Chiesa. Non è consono, ci sta dicendo il Papa, al Vangelo della misericordia e al volto della Chiesa, a un tempo Maestra di verità e Madre di misericordia.
Non si tratta di sminuire la radicalità e l’ideale evangelico. Si tratta di evitare la subordinazione delle persone alla legge. Non è la persona per la legge, ma la legge per la persona. In ordine non al bene ideale, ma al bene possibile, di cui una persona è capace in una situazione o in una fase del suo cammino di vita. In questa attenzione alla persona, il Papa ricorda ai Pastori i condizionamenti del conoscere e del volere, che abbassano o annullano il grado di responsabilità delle persone. Essi «non possono dimenticare ciò che con tanta chiarezza insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: “L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali”». Per questo diventa difficile giudicare e vale il consiglio evangelico: «Non giudicate» (Mt 7,1).
Il Papa esorta i sacerdoti e gli operatori pastorali a una proposta morale positiva e a una prassi pastorale d’accompagnamento. La catechesi morale non deve privilegiare le proibizioni, i divieti, i mali da evitare, ma il bene da compiere: «Indicare sempre il bene desiderabile, la proposta di vita, di maturità, di realizzazione, di fecondità, alla cui luce si può comprendere la nostra denuncia dei mali che possono oscurarla. Più che come giudici oscuri che si compiacciono di individuare ogni pericolo o deviazione, è bene che possano vederci come gioiosi messaggeri di proposte alte, custodi del bene e della bellezza che risplendono in una vita fedele al Vangelo».
L’altra esortazione è a una prassi etico-pastorale d’accompagnamento, in un cammino personalizzato di crescita graduale, segnato dalla forza sanante e vitale dei sacramenti: «Bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. Ai sacerdoti ricordo che il confessionale non deve essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore, che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute». Di qui il richiamo a tenere «le porte aperte». Dalle porte delle chiese, a quelle della comunità ecclesiale, alle porte dei sacramenti, le quali «non si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi». Questo vale in particolare per «il Battesimo che è “la porta”». E per l’Eucaristia, la quale «non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli». E invece «di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa – ricorda a tutti il Papa – non è una dogana, è la casa paterna, dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa».
Scendendo dalle sicurezze oggettive della norma alla sua mediazione nel vissuto soggettivo delle persone, si può incorrere nell’errore. Questo pericolo non può arroccarci sulla norma e abbandonare le coscienze alla loro solitudine. Fossero pure erronei – invincibilmente erronei, li dice la teologia morale –, i sinceri giudizi di coscienza sono da rispettare. Questo patrimonio personalistico della morale cattolica è alla base dell’incoraggiamento del Papa a non rinchiuderci nella legge, ma ad avvicinarci alle coscienze, accompagnandole nella deliberazione del bene possibile e aiutandole a rialzarsi da ogni caduta: «Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli».
Mettendo al centro la persona, il Papa polarizza sulla grazia la morale. Morale della grazia, non della legge. «Noi – infatti – non siamo più sotto la legge, ma sotto la grazia», assicura san Paolo (Rm 6,15). Che non significa una grazia senza la legge. Ma una legge assunta dalla grazia, che è dono per conoscere e adempiere il bene, e perdono, misericordia, per non soccombere al male.
Mauro Cozzoli
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