Da Avvenire – 27 novembre 2013
«Usciamo, usciamo». Incomincia così il n. 49 dell’Esortazione Apostolica di papa Francesco sul tema dell’evangelizzazione, che ha impegnato il recente Sinodo mondiale dei Vescovi. L’immagine non è occasionale, né casuale. Che si tratti di una chiave di lettura – e quindi di azione – del messaggio destinato alle Chiese cristiane, è confermato dalla dicitura che sta all’ingresso del primo capitolo: «Una Chiesa in uscita».
Francesco si mette a capo del popolo di Dio e lo guida all’uscita dalla schiavitù. Uscita dall’inerzia di una posizione di rendita, che può apparire rassicurante e persino confortevole, ma che ormai confina con l’assuefazione alla «mondanità spirituale». Uscita dalla mancanza di iniziativa, dalla perdita di creatività, dall’amorevole coltivazione della propria nobile malinconia: la storia della modernità ha deviato dal corso previsto, che doveva passarci sotto casa. Invece. E allora, tanto peggio per la storia, e per gli uomini, le donne e i bambini che ci sono dentro. L’accidia, la rassegnazione, lo scoraggiamento – scrive Francesco – portano alla «psicologia della tomba». Può sembrare un rifugio, un sacrario persino. Ma è un luogo di morti.
Non c’è però solo una cristianesimo ripiegato su se stesso perché vive una perenne «Quaresima senza Pasqua» (n. 6). In questi anni, i cristiani ci hanno messo del proprio per mortificare ciò che lo Spirito aveva pur messo in moto. Hanno creato contrapposizioni artificiose nel popolo di Dio, seminato arroganza di élites fra i cristiani diversamente impegnati, acceso vere e proprie «guerre» interne, nelle quali sono state dilapidate energie e sostanze che erano destinate alla missione comune (n. 94). Anche da queste stupide liti bisogna uscire. In fretta, e con un taglio netto. E bisogna pensare di più ai «poveri». Soprattutto al loro riconoscimento da parte di una religione che non se ne serve come strumento per disegni che non li riguardano.
Una religione la cui ambizione è solo quella di restituirli alla dignità spirituale della loro mente, dei loro affetti, della loro persona. E di una relazione con Dio che non devono mendicare, perché è semplicemente destinata e donata. La comunità umana e cristiana è in debito di inclusione e di reciprocità nei loro confronti. L’enorme sofisticazione delle nostre occupazioni di autorealizzazione spirituale ed ecclesiale, che poi ammettono all’aristocrazia della fraternità solo i portatori professionali dei carismi, deve metterci in imbarazzo una volte per tutte. «Occorre affermare, senza giri di parole, che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli” (n. 48).
La caduta in verticale del gusto comunitario della vita è oggi direttamente proporzionale all’ossessione del godimento dei suoi piaceri, che seleziona i privilegiati della competizione per l’evoluzione migliore. La loro avidità è peggio del buco nell’ozono. È l’economia dell’esclusione, che «uccide». È l’idolatria del denaro di Epulone, che non ha alcuna «ricaduta» favorevole. (i cani hanno anche il salone di bellezza, a Lazzaro – come da copione – continuano a non arrivare neppure le briciole). È l’iniquità che genera fatalmente aggressività e violenza: nel contesto urbano, ormai, è un tratto di stile, per così dire. La Chiesa esce dalla tomba, e molti uomini e donne che non ci credevano più escono dal guscio. E ritrovano il piacere «spirituale» di essere «popolo», che sta diventando sconosciuto agli umani.
Questo e molto altro troverete, in questo poema sinfonico dell’evangelizzazione, in cui sono raccolti i motivi conduttori del magistero di Francesco. Due movimenti da non perdere. Il trattatello sulla città secolare, che mette a fuoco la differenza strutturale della missione nell’odierno contesto urbano (nn. 52–75). E il trattato sull’omelia liturgica (135–159). Cominciate pure di qui. Unite i due fili, e la mente si metterà in moto. La formula della nuova evangelizzazione perderà ogni ambiguità possibile, e mostrerà l’essenziale.
Pierangelo Sequeri
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