Stefano Zamagni – Avvenire 17 agosto 2012
È quanto meno strano che la storiografia su De Gasperi si sia soffermata più sui temi di politica interna ed estera che non su quelli di politica economica. (Proprio il contrario di quanto è accaduto ad un’altra grande figura di statista, quella di K. Adenauer.) Eppure, il pensiero e l’opera di De Gasperi in ambito economico non meritano l’oblio, perché hanno ancora tanto da dirci per l’oggi. Una prima questione può essere posta nei seguenti termini: perché lo statista trentino, che pure conosceva bene e giudicava positivamente l’economia sociale di mercato (ESM) tedesca, non ritenne di tentarne un’applicazione al caso italiano? Perché conoscendo bene la realtà del paese all’epoca e quanto era accaduto durante la tragica esperienza del fascismo, aveva ragioni di ritenere che la proposta del modello dell’ESM sarebbe stata presa a significare una riedizione dell’ordine sociale corporativista. Per un verso, la Confindustria non voleva sentir parlare di cogestione, di monitoraggio dei comportamenti, di scambio di informazioni tra gli attori economici, elementi questi costitutivi dell’ESM (anche Pasquale Saraceno non vedeva di buon occhio il partecipazionismo operaio).
Per l’altro verso, i tre principali partiti dell’epoca non nascondevano la loro diffidenza nei confronti dell’impresa privata: Pci e Psi per ragioni ideologiche; la sinistra Dc perché il capitalismo veniva percepito come contrario alla Dottrina sociale della Chiesa. Al tempo stesso, De Gasperi non poteva certo spendersi – et pour cause – per il modello di economia liberale di mercato di tipo anglosassone. Come è noto, la chiave della distinzione tra i due modelli è nella diversa modalità degli imprenditori di coordinarsi fra loro per controllare la dinamica salariale, per incoraggiare l’innovazione e per favorire l’aggiustamento alle mutate condizioni di mercato. Di qui quello che è stato chiamato – a mio giudizio impropriamente – il compromesso degasperiano, e cioè l’economia mista di mercato: nella sfera privata si accolgono i principi liberali; nella sfera pubblica si applica la nozione di Stato limitato. Quest’ultimo è uno Stato né minimo (come volevano i liberali), né interventista su tutti i fronti (come volevano gli statalisti); ma uno Stato che è anche forte purché si muova entro limiti ben definiti. La sintesi mirabile fra solidarismo cristiano e libero mercato è il vero capolavoro di De Gasperi, pari, per importanza, al capolavoro di Parigi del febbraio 1947 nella circostanza del Trattato di pace, quando De Gasperilo statista riuscì a far accogliere l’Italia nel novero delle democrazie occidentali.
Mantenendo le due sfere in equilibrio dinamico, De Gasperi ha dimostrato di saper fare tesoro delle complementarità istituzionali. La seconda questione concerne il modo in cui De Gasperi interpreta i principi della Dottrina sociale della Chiesa con specifico riguardo al tema della giustizia sociale. Quest’ultima viene vista come un meccanismo di correzione e di compensazione dei risultati di mercato, come vuole il liberalismo di marca anglosassone, e non come un insieme di regole e provvedimenti che valgano a far funzionare in modo più equo il mercato. La società giusta, per De Gasperi, non è solamente quella che garantisce l’equità intesa come eguagliamento dei punti di partenza, ma anche quella che assicura un certo grado di uguaglianza dei punti di arrivo del gioco di mercato. E ciò per la fondamentale ragione che la democrazia che mira al bene comune non può tollerare di assistere passivamente all’aumento sistemico delle diseguaglianze. Di qui la lotta dello statista trentino contro i monopoli (privati), il latifondo, le varie forme di rendita parassitaria. Si trattava di battere le numerose elites che cercavano il controllo del potere economico per esaltare la loro avidità. Disoccupazione strutturale e povertà estrema furono sin da subito i principali cavalli di battaglia di De Gasperi, il quale aveva ben compreso che sono i vested interests, gli interessi costituiti quando danno vita a forti coalizioni distributive a rappresentare la più grave minaccia alla crescita.
Infine, non si può non fare parola della straordinaria intuizione di De Gasperi a proposito della distinzione tra istituzioni economiche estrattive e inclusive: le prime sono quelle che concentrano ricchezze e poteri nelle mani di pochi; le seconde tendono a redistribuire il potere, a realizzare cioè la poliarchia. Sono infatti le istituzioni economiche a promuovere lo sviluppo assai più e meglio delle condizioni geografiche e delle stesse matrici culturali. Ma le istituzioni, in quanto regole del gioco, nascono dalla politica. Dunque senza un mutamento politico adeguato, a poco serve cercare di applicare ricette o modelli che pure hanno dato buona prova di sé in altri contesti. Ecco perché De Gasperi si batté con decisione contro quel modo di fare politica oggi indicato con l’espressione di private politics, la politica, cioè, di rappresentanze extra-parlamentari che esercitano pressione su organi dello Stato, disintermediando così la politica democratica.
Facendo propria la nozione di Johannes Althusius di democrazia come consociatio symbiotica, De Gasperi nei suoi innumerevoli discorsi non perde occasione per ricordare che l’uomo non è una monade e che la società non è un aggregato di identità separate. Si possono capire le incomprensioni, le critiche e le accuse, spesso ingenerose, avanzate anche da taluni settori della Dc, nei confronti del disegno degasperiano di politica economica. Il fatto è che De Gasperi, al pari di chi è parte di minoranze profetiche, pensa e si esprime in anticipo sui tempi. Non si è voluto – e in parte ancor oggi non si vuole – riconoscere l’originalità di un pensiero che aveva bensì radici profonde, ma che per la sua novità spingeva più avanti la frontiera delle conoscenze e dei modi di intervento. Sappiamo che senza memoria il pensiero non può volare alto, perché la memoria è la permanenza del passato capace di orientarci. Ravvivare oggi la memoria di De Gasperi è operazione tutt’altro che oziosa o retorica.
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