di Enzo Bianchi – “Jesus” 9 ottobre 2012
“Apocalisse” non significa quello che si intende nel linguaggio corrente, bensì l’operazione con cui
si toglie il velo, viene rivelato qualcosa che era nascosto, si comprende con evidenza ciò che prima
non era possibile vedere. Sovente nella vita cristiana ci sono “apocalissi”, sia a livello ecclesiale che
a livello personale. Ora, la morte del card. Carlo M. Martini è stata un’apocalisse su di lui e sulla
chiesa italiana nelle sue varie componenti. È stato infatti estremamente significativo che la sua
sepoltura sia avvenuta il giorno della festa liturgica di san Gregorio Magno, il vescovo di Roma che
ci ha lasciato un modello esemplare del servizio di comunione nella chiesa quale “servo dei servi di
Dio”.
Carlo M. Martini amava molto questo padre della chiesa che esercitò il ministero in un momento
buio della storia dell’occidente, conservando uno spirito pieno di speranza nella storia guidata dal
Signore dell’universo anche quando la crisi di un mondo, quello romano, era ormai grave. Gregorio
è stato il vescovo che ha continuato a essere assiduo alla lettura orante della parola di Dio: “la
Scrittura cresce con chi la legge” fu l’esperienza che trasmise ai suoi fratelli e, munito di tale luce,
non si spaventò né di fronte ai barbari né di fronte alla vastità della missione che si apriva nei loro
confronti e nelle loro terre lontane. La “Regola pastorale” scritta da Gregorio è stato il primo libro
meditato da Martini dopo la sua inattesa elezione a vescovo, da quel testo trasse il suo motto
episcopale – “Propter veritatem adversa diligere” – e a quella Regola Martini tornava sovente per
trarre illuminazione e ispirazione nel suo ministero.
Apocalisse, dicevamo, per la coincidenza beata della memoria del padre della chiesa, quasi un
sigillo sulla vita di Martini, una “rivelazione” di quello che rappresentava per la chiesa, per quel
popolo che ha sentito il bisogno spontaneo di sfilare di fronte alle sue spoglie e di volerlo vedere e
abbracciare mentre si celebrava il suo funerale, il suo esodo da questo mondo al Padre. Benedetto
XVI ha scritto su Martini le parole più vere e discrete: è stato “un uomo di Dio”. Non c’è onore e
qualificazione più grande nella vita cristiana! Uomo di Dio perché totalmente affidato, offerto a Dio
e alla sua signoria, unica forza capace di determinarlo nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti, nelle
sue azioni. Come ogni uomo, anche Martini ha certamente opposto le sue resistenze alla volontà di
Dio ma, per quel che la chiesa ha visto, egli ha cercato di essere sempre e solo al suo servizio e a
quello di nessun altro, senza mai cercare tattiche o strategie né ecclesiali né ecclesiastiche. Lo
possiamo dire: nel suo servizio pastorale il cardinal Martini non cercò facili consensi e non fece
battaglie contro nessuno; nell’ora del conclave, da cristiano innanzitutto e con la determinazione del
gesuita che non ambisce cariche, non ha praticato strategie né prima né durante l’iter per l’elezione
del papa, nella fiducia che lo Spirito santo può influenzare più di qualsiasi strategia i cardinali
elettori quando questi non pongono resistenza al suo agire. Martini è stato così: evangelico perché
mai impegnato in calcoli o macchinazioni di astuzia ecclesiastica e politica. E in questo si sapeva
compreso da Benedetto XVI che lo stimava proprio per la sua trasparenza.
Ma l’apocalisse è avvenuta anche per gli oppositori di Martini. Come per tutti i pastori, è fisiologico
che ci siano oppositori, persone che non condividono atteggiamenti e scelte pastorali di un vescovo:
fa parte della legge della comunione che, per essere tale, sempre abbisogna delle differenze, delle
diversità. Del resto sta scritto: “Guai a voi se tutti dicono bene di voi…” (Lc 6,26). Un pastore che
non abbia opposizioni dovrebbe interrogarsi seriamente sul motivo: dipende dal fatto che incute
paura e impedisce ad altri la critica, oppure dalla sua capacità di sedurre tutti o di comprare il
consenso in mille modi, o perché non tollera la contraddizione? Oppure perché non annuncia il
vangelo e Gesù Cristo ma solo ciò che piace agli “idolatri” presenti nella chiesa e nel mondo? Nella
chiesa nascente Paolo si è opposto a Pietro, che ha accettato le critiche e che a sua volta ha
osservato come gli scritti di Paolo richiedessero una lettura con discernimento e sapienza. Tutto
questo è avvenuto nel conflitto sì, ma senza “cattiveria”. Invece quanto abbiamo dovuto vedere e
leggere in occasione della morte di Martini è stata anche la “cattiveria” di tanti che si dicono
cattolici, che si sentono chiesa con un’arroganza che vorrebbe escludere dalla chiesa chi non la
pensa come loro.
Sì, è stato lo svelamento di quella “cattiveria” di cui sempre più siamo testimoni, almeno da alcuni
anni: una “cattiveria” che sembra regnare di diritto nella chiesa ed essere addirittura gradita ad
alcuni che nella chiesa ricoprono anche alte cariche. Quanti spargono “cattiveria” in ogni intervento
hanno denunciato l’“eresia buonista” di chi semplicemente pensa che nella chiesa la critica vada
sempre fatta con il rispetto delle persone! L’opinione pubblica nella chiesa – ancora gravemente
mancante – si crea attraverso il confronto, la critica anche aspra tra posizioni differenti ma, per
essere ecclesiale, deve avvenire senza “cattiveria”, nel rispetto delle persone e nel riconoscimento
del comune riferimento a Cristo, Signore della chiesa. Invece no! Anzi, questo “sbranarsi a vicenda” –
come lo ha deplorato Benedetto XVI – sembra sempre più gradito ad alcuni ecclesiastici sicché non
manca chi si sente incoraggiato… Basta vedere come oggi sono trattati alcuni vescovi nella chiesa
italiana: sono denunciati, disprezzati, accusati di non essere cristiani, di non avere la fede cattolica…
E questi critici si professano cattolici, dunque chiediamoci: sono convinti dell’oggettività cristiana
espressa in una comunità di cui i vescovi sono legittimi e autorevoli pastori, successori degli apostoli
e messi dallo Spirito santo a pascere la chiesa di Dio? Che tristezza!
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