Da Avvenire 11 gennaio 2014
Quando papa Francesco parla della povertà, elogia la povertà, invita alla povertà, esortando a guardare con amore ai poveri e ad esser loro vicini, innanzitutto spiritualmente, lo fa con passione. Addirittura scrive una “esortazione nell’esortazione”, perché ben 15 paragrafi (dal 186 al 201) sono tanti. Ed è una passione che richiama e riscrive una tradizione consolidata, nella Chiesa italiana e in quella universale.
Viene alla mente, ad esempio, il documento Sovvenire alle necessità della Chiesa, votato dai vescovi italiani riuniti in assemblea nel 1988. Quel testo (richiamato vent’anni dopo nel documentoSostenere la Chiesa per servire tutti) fondava, teologicamente e pastoralmente, il nuovo sistema di sostegno economico. Nel farlo, sottolineava un’evidenza: non può chiedere un aiuto economico chi non è povero, chi non testimonia i valori della povertà e della trasparenza con la propria vita quotidiana. I vescovi “riscrivevano” il numero 17 del decreto del Concilio Vaticano II sulla vita sacerdotale, Presbyterorum ordinis: «I preti, come pure i vescovi, evitino tutto ciò che può allontanare i poveri, e più ancora degli altri discepoli di Cristo vedano di eliminare dalle proprie cose ogni ombra di vanità». E ancora: «Non trattino dunque l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno, né impieghino il reddito che ne deriva per aumentare le sostanze della propria famiglia»; quindi, «senza affezionarsi in alcun modo alle ricchezze, debbono evitare sempre ogni bramosia e astenersi accuratamente da qualsiasi tipo di commercio». Sovvenire giungeva addirittura a invitare i preti a fare testamento, «evitando così che i beni derivanti dal ministero, cioè dalla Chiesa, finiscano ai parenti per successione di legge».
L’assonanza con l’Evangelii gaudium è evidente. E rimanda appunto al Concilio. Nessun documento tratta in modo specifico della povertà; ma molti ne recuperano il valore e la necessità. L’assonanza è poi fragorosa con un testo per molti versi dimenticato, una lettera sottoscritta da cinquecento padri. L’iniziativa era stata del “gruppo del Collegio belga”, dal luogo dove fin dalla prima sessione avevano preso l’abitudine di riunirsi. C’erano il brasiliano Camara, il vescovo del Sahara Mercier, i teologi Congar e Chenu… Il 16 novembre 1965, tre settimane prima della conclusione del Concilio, una quarantina di loro si riunirono nelle Catacombe di Domitilla per celebrare l’eucaristia e impegnarsi solennemente a vivere in spirito di povertà. L’impegno fu poi firmato da altri, ma va aggiunto che molti padri non seppero dell’iniziativa e così non poterono firmare.
Il loro impegno risuona familiare, per noi che oggi vediamo lo stile di vita di papa Bergolio. «Cercheremo di vivere – leggiamo nella lettera dei padri conciliari – come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (…), nelle insegne di materia preziosa (…). Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, eccetera; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative». E così via.
Alla fine dell’”esortazione nell’esortazione” (201), papa Francesco aggiunge: «Temo che anche queste parole siano solamente oggetto di qualche commento senza una vera incidenza pratica». Timore legittimo. Ma la tradizione sulla quale le sue parole si fondano c’è, ed è solida. Bisogna farla vivere.
Umbeto Folena
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