di Bruno Forte – Il Sole 24 Ore 1 luglio 2012
Quanto sta avvenendo in Italia, in Europa e nell’intero “villaggio globale” mostra con evidenza quanto ci sia bisogno di dialogo: dalla crisi che attraversiamo non si uscirà se non insieme. Sembra lo stiano comprendendo anche le forze politiche, o almeno i più. Dialogare, però, non è facile: può farlo veramente solo chi crede in un interesse superiore alle parti, nel bene comune da amare e servire più del proprio o di quello di gruppo. Riflettere sulle condizioni che rendono possibile e autentico il dialogo non è allora un esercizio astratto, risulta anzi tanto importante, quanto urgente. Il dialogo comporta sempre una sorta di uscita da sé, dalle ristrettezze del proprio punto di vista, per arrivare alla condivisione e all’incontro con l’altro.
A tutti i livelli, il dialogo è il linguaggio della vita vissuta come dono e come impegno, e perciò il luogo dove propriamente può realizzarsi la ricerca del bene comune. Dove non c’è impegno generoso per gli altri non potrà esserci dialogo; e, analogamente, dove non c’è dialogo è dubbio che possa esserci attenzione adeguata al bene di tutti e spirito di servizio. Si potrebbe rischiare l’affermazione che il dialogo è la misura dell’autenticità della vita, della ricchezza di umanità di ciascuno e della credibilità delle proposte fatte per il bene comune. Perciò, nulla si oppone di più alla natura del dialogo che la strategia o il tatticismo: dove il dialogo è strumento per dominare l’altro o per usarlo ai propri fini, li cessa di esistere. Il dialogo, in tutti i campi e specialmente in politica, ha la dignità del fine e non del mezzo: esso esige la gratuità dell’intenzione e si propone come una possibilità feconda d’incontro che nasce dalla volontà di servire la causa del bene di tutti.
Proprio per questo il dialogo non nasce e non si sviluppa lì dove la dignità e la consistenza dell’altro non siano rispettati. Il monologo, che ignora le esigenze e gli apporti altrui, vanifica l’incontro, rendendolo puramente accidentale: il dialogo, al contrario, vive della «reciprocità delle coscienze» (Maurice Nédoncelle), dello scambio fecondo in cui il dare e il ricevere sono misurati dalla gratuità e dall’accoglienza di ciascuno dei due. La massificazione anonima esclude ogni possibilità di esistenza dialogica: il riconoscimento dell’alterità come dono da accogliere, e non come rischio da cui difendersi, è essenziale al dialogo. E questo vale nel rapporto interpersonale come in quello fra gruppi (si pensi, ad esempio, alla presenza degli immigrati fra noi). Iniziativa e accoglienza esigono, tuttavia, di non restare chiuse nel cerchio del faccia a faccia, perché il dialogo sia vero e fecondo: la libertà da ogni forma di cattura è necessaria alla possibilità e all’effettiva realizzazione di uno scambio dialogico. Dove si creassero strumentalizzazioni o chiusure settarie il dialogo verrebbe a mancare: esso è autentico non solo quando nasce nel clima della libertà, ma quando si presenta come esperienza liberante, costantemente aperta agli altri, inclusiva e mai esclusiva dei bisogni e delle inquietudini di tutti. L”‘incontro nella parola” – in cui consiste letteralmente il dialogo (“da logos”) – deve rendere possibili altri incontri: esso proietta gli interlocutori fuori del cerchio dei due, verso il vasto mondo della solidarietà e della giustizia per tutti.
È qui che si coglie come dialogo e ricerca della verità non solo non si oppongano, ma siano in certo modo l’uno la via e l’autenticità dell’altro: ciò che è ricevuto nell’ascolto docile della verità, esige di essere gratuitamente offerto nel dialogo. L’onestà nell’obbedienza al giusto e al vero rende possibile e autentico il dialogo. Dialogo non è irenismo o cedimento alla dittatura del più forte: chi dialoga veramente deve servire la verità e impegnarsi per la giusta causa, anche a costo di rischiare il fallimento della convergenza cercata (così, mi sembra, hanno finalmente saputo dialogare i leader europei nel vertice del 28 e 29 giugno a Bruxelles: e bisogna dare atto al presidente del Consiglio Monti di essersi battuto in prima persona per questa linea). D’altra parte, dialogando così si sprigionano le energie nascoste del bene, e le potenzialità di ciascuno, lungi dal chiudersi in se stesse, si proiettano fuori di sé, facendosi servizio e dono. Quest’apertura all’esterno non solo non
mortifica la comunione di coloro che dialogano, ma la rende vera e liberante: da un dialogo vero e non soggiogato a poteri forti, ad esempio, l’Europa esce migliore, più credibile e incisiva. Qui si comprende anche come la fatica, che a volte il dialogo richiede, può essere tanto più sostenuta e condurre a un’esistenza veramente dialogica quanto più ci si accorge di essere stati interpellati per primi da un Altro che ci trascende tutti nel dialogo della vita. In questa luce si coglie lo specifico di chi s’impegna al servizio del bene comune sorretto da un’ispirazione di trascendenza di sé, di obbedienza a Dio e di servizio agli altri. Come afferma Agostino, «nulla maior est ad amorem invitatio, quam praevenire amando» -«Non c’è invito più grande all’amore, che amare per primi» (De cathechizandis rudibus, 4,7). Chi crede nella rivelazione del Dio che ci ha amato per primo è chiamato da questa stessa fede a uno stile di vita plasmato dal dialogo e impegnato nel servizio che anteponga il bene comune al proprio. Senza dialogo al suo interno la Chiesa stessa non potrà proporsi come “icona della Trinità”, riflesso nel tempo del dialogo eterno dei Tre.
Senza dialogo di sollecitudine e di amicizia verso la comunità degli uomini essa non annuncerà quanto gratuitamente le è stato rivelato e donato. Senza dialogo e spirito di servizio l’ispirazione cristiana in ogni campo e specialmente in politica non sarà credibile. È questo un aspetto chiave del messaggio del Concilio Vaticano II, non solo in rapporto all’ecumenismo e al dialogo interreligioso, ma anche riguardo agli stili della vita ecclesiale e alla relazione fra la Chiesa e il mondo. A cinquant’anni dall’apertura del Concilio e dalle intuizioni profetiche di Giovanni XXIII, che indirizzavano verso il riconoscimento di una nuova aurora per il popolo di Dio e la famiglia umana (il «tantum aurora est…» del discorso inaugurale dell’assise conciliare, l’11 ottobre 1962), queste verità semplici e grandi non solo non hanno perso, hanno anzi guadagnato in attualità e urgenza per tutti.
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