AGOSTINO GIOVAGNOLI
La Repubblica 24 agosto 2012
In pochissimo tempo, De Gasperi ha portato al governo i partiti di massa – cattolici, socialisti e comunisti – per la prima volta nella storia italiana; ha lanciato un progetto politico completamente nuovo – il centrismo – anche senza poter contare su una solida maggioranza parlamentare; ha portato l’Italia dal disastro della sconfitta bellica alla condizione di socio fondatore della più importante alleanza militare della storia, l’Alleanza Atlantica; ha iniziato, con Monnet, Schumann e Adenauer, il percorso verso l’Unione Europea; ha avviato una ripresa economica che ha inserito l’Italia tra i principali Paesi industrializzati del mondo. Ricordare oggi De Gasperi, come è stato fatto nei giorni scorsi, costituisce perciò una grande provocazione. L’impressionante bilancio di ciò che egli ha fatto mostra infatti che la politica può cambiare tutto, anche in tempi brevissimi, e se ciò non accada è inevitabile chiederne conto a chi fa politica: leader, partiti, movimenti (ma anche cittadini ed elettori).
È una provocazione che non risparmia nessuno. Investe anzitutto i cattolici che negli anni passati si sono rifugiati in modo consolatorio nel ricordo di Luigi Sturzo. Il fondatore del Partito popolare fu indubbiamente un grande protagonista del tentativo di portare alla democrazia l’Italia del primo dopoguerra. Ma quel tentativo fallì, davanti ad opposizioni fortissime, e ad un cattolicesimo politico minoritario e subalterno, come quello prevalente nella Seconda repubblica, richiamare Sturzo ha permesso di sottolineare soprattutto le colpe degli altri (a scelta: la violenza fascista, l’ottusità socialista, l’autoritarismo ecclesiastico). Il ricordo di De Gasperi, invece, impone un più impegnativo confronto con chi è riuscito a portare definitivamente l’Italia alla democrazia, malgrado molti ostacoli e molti avversari.
Il centrismo degasperiano, inoltre, mette in difficoltà tutti i bipolaristi ad oltranza. La sua politica, infatti, si è basata su un’intransigenza assoluta verso una destra neofascista e una sinistra ad egemonia comunista, che cercavano di stringere la politica italiana in un bipolarismo davvero micidiale. Ma il suo esempio, dimostrando che è possibile governare efficacemente dal centro, è scomodo anche per i centristi di oggi. De Gasperi, infatti, ha trasformato uno spazio politico davvero esiguo in un luogo di incontro tra diversi, estremamente dinamico. Respinta la confessionalizzazione della politica – che gli avrebbe garantito un comodo consenso ed evitato esperienze dolorose, come il conflitto con Pio XII – ha lottato per abbattere gli storici steccati tra guelfi e ghibellini. E anche quando la Dc avrebbe potuto governare da sola, egli cercò la collaborazione delle poche altre forze disponibili, scegliendo di volta in volta tecnici liberali come Einaudi, quando era prioritario lottare contro gli “speculatori” e rassicurare i mercati, repubblicani come La Malfa, per inserire l’Italia nell’economia internazionale, o socialisti democratici, non appena gli sembrò possibile mettere mano a riforme di grande respiro (Cassa per il Mezzogiorno e riforma agraria).
Il centrismo degasperiano, insomma, non è stata una politica di parte. Appare in questo senso fuorviante attardarsi a discutere se il “vero” De Gasperi sia stato quello che ha collaborato con i comunisti o quello che ha rotto con le sinistre. Egli fu, infatti, entrambe le cose in tempi diversi, in funzione di un progetto storico di grande respiro, a sostegno del quale cercò, ogni volta, gli alleati più adatti. Non a caso, come ha scritto Pietro Scoppola, il suo progetto ha ispirato anche la politica del centro-sinistra, negli anni Sessanta, e persino quella della solidarietà nazionale, negli anni Settanta. E la proposta degasperiana interroga anche oggi tutte le parti politiche. Al centro, raccoglierne la lezione, significherebbe creare un partito che sia, come quello fondato da De Gasperi, un vero “partito italiano”, che cerca di abbracciare tutti i problemi e tutte le spinte di una realtà tanto variegata come quella del nostro Paese. Molto se ne parla, ma finora nessuno l’ha ancora fatto e il tempo sta diventando breve. A destra, l’esempio di De Gasperi ricorda che se si vuole governare l’Italia bisogna darsi una leadership di alto profilo, sinceramente democratica e autenticamente nazionale, che non difende gli interessi di una parte ma persegue il bene comune. E a sinistra insegna che fare politica significa governare la complessità, senza inseguire il soccorso di forze esterne, come fanno quanti, da Palermo a Taranto, vorrebbero riportare l’orologio della storia agli inizi della Seconda repubblica, evocando una supplenza politica della magistratura.
La lezione di De Gasperi, insomma, parla a tutti perché antepone le scelte politiche alle identità ideologiche. È ciò di cui c’è bisogno, in particolare davanti a questioni sempre più cruciali, come quella del futuro dell’Europa. Come scrive Habermas, sono oggi inadeguate sia le posizioni dei sostenitori ad oltranza degli Stati Uniti d’Europa sia quelle dei difensori accaniti dello Stato nazionale. De Gasperi lo aveva già capito, se dopo aver avviato l’integrazione europea su base intergovernativa, ha subito proposto l’elezione diretta di un Parlamento europea. Per una volta, insomma, ricordare la storia serve non a parlare del passato ma a progettare il futuro: la figura mite e garbata di De Gasperi ci si presenta oggi come quella di un giudice severo della politica italiana e, insieme, come un aiuto prezioso nella lotta contro il qualunquismo e l’antipolitica.
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