Ultimamente una grande questione divide politici, intellettuali, associazioni e gente comune: l’esistenza della cosiddetta “teoria gender “. E di conseguenza, se sia reale o meno la sua introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado.
Gender o no gender, questo è il problema.
I negazionisti del gender sostengono che la famosa “teoria” sia in realtà una invenzione di coloro che pretendono di combatterla. Forse perché questi ultimi interpreterebbero male i cosiddetti “studi di genere”. Forse perché deformerebbero volontariamente certe visioni, attribuendole al variegato mondo LGBT, in modo da avere nemico più facile da combattere e da demonizzare (il noto argomento dell’”uomo di paglia”).
Alcuni si spingono fino a dire che la teoria di genere sarebbe stata creata, per le finalità di cui sopra, in qualche stanza segreta del Vaticano …
Visto che l’argomento è di grandissimo interesse, è venuto il momento di fare un tentativo di esporre in modo più chiaro possibile le ragioni che stanno dietro alla posizione di chi sostiene l’esistenza della teoria e denuncia il fatto della sua promozione da parte di alcune istituzioni e all’interno di alcune scuole.
Divideremo l’esposizione in tre parti:
- Cosa intendiamo con l’espressione “teoria gender”?
- Esiste tale teoria (altrove che nella mente di coloro che pretendono di combatterla)? viene promossa da qualche istituzione?
- La teoria di genere viene introdotta in qualche modo nelle nostre scuole?
Parte I. Cosa intendiamo con l’espressione “teoria gender”?
Sembra che l’espressione non sia univoca e non sia sempre descritta negli stessi termini anche da coloro che la criticano. Bisogna stare attenti a non semplificare eccessivamente i termini della questione. Ad esempio, dire che “la teoria gender elimina ogni differenza tra maschio e femmina” oppure che per essa “non esiste il sesso ma il genere”, sarebbe semplicistico e impreciso.
Alcuni obiettano, come accennato, che in ogni caso si deve parlare solo di “studi di genere” e non di “teoria” di genere.
In verità, non si capisce il perché di tutta questa avversione per il termine “teoria”. Sarebbe infatti inverosimile ritenere che gli “studiosi” di genere si limitino a “studiare” e non abbiano avanzato nessuna tesi organica, nessun insieme di conclusioni coerente, nessuna (appunto) teoria.
Per il vocabolario Treccani, una “teoria” è una “Formulazione logicamente coerente di un insieme di definizioni, principî e leggi generali che consente di descrivere, interpretare, classificare, spiegare, a varî livelli di generalità, aspetti della realtà naturale e sociale, e delle varie forme di attività umana. In genere le teorie stabiliscono il vocabolario stesso mediante il quale descrivono i fenomeni e gli oggetti indagati …”.
Altri vocabolari danno definizioni ancora più ampie: “modo di pensare, opinione, pensiero; idea, concezione …”.
Ora, come vedremo, coloro che coltivano o applicano gli studi di genere formulano una serie di definizioni(“genere”, “identità di genere”, “ruolo di genere”, ecc.), di principi (distinzione tra sesso e genere, derivazione culturale del genere, prevalenza dell’identità di genere, ecc.) che consentono a loro avviso di interpretare aspetti della realtà naturale e sociale e delle attività umane (differenze/disparità tra donne e uomini, discriminazioni di genere, stereotipi di genere, transizioni di genere, ecc.).
Dunque, una teoria, o delle teorie.
Questa teoria o queste teorie, vengono denominate “di genere” (o “gender”, dal termine inglese) perché si basano sulle nozioni di “genere”, come distinto dal sesso biologico, di “identità di genere”, di “ruolo di genere”, ecc. In modo analogo, dal punto di vista linguistico, si parla di teoria “dell’evoluzione” perché si basa sul concetto dell’evoluzione delle specie, o di teoria della “relatività” perché si basa sulla relatività dello spazio/tempo, ecc.
E’ quindi corretto dal punto di vista linguistico, e coerente dal punto di vista logico, parlare di “teoria/teorie di genere”.
Si può riconoscere che non tutti quelli che applicano gli “studi di genere” hanno esattamente la stessa visione su tutte le questioni. Da questo punto di vista sarebbe forse più proprio parlare di “teorie di genere” al plurale.
Nonostante ciò il ricorso all’espressione singolare “teoria di genere” rimane legittimo perché è possibile individuare un “nucleo duro” sotto le diverse prospettive. In modo simile si parla ad esempio di “teoria dell’evoluzione” al singolare, malgrado la indubbia diversità di “teorie” sui meccanismi o sulla storia dell’evoluzione delle specie, poiché alcuni concetti e principi di fondo rimangono gli stessi (ad esempio il fatto e la possibilità della transizione naturalistica da una specie all’altra).
Mutatis mutandis, anche le teorie di genere hanno un fondamento comune: la teoria gender ha il suo “cuore” che giustifica l’utilizzazione dell’espressione al singolare.
La teoria prende le mosse dalla distinzione tra sesso biologico e “genere”. Questa prima distinzione è importante. Infatti il “genere” non ha una derivazione naturale-biologica ma culturale, e si potrebbe definire come un insieme di ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini.
La teoria di genere, anzitutto, riduce drasticamente (fino ad annullare) il peso che ha il sesso biologico nella determinazione dei ruoli, comportamenti e attributi che vengono considerati appropriati per uomini e donne. Proprio perché questo insieme di ruoli, comportamenti e attributi costituisce il “genere”, ed esso è un fatto di culturanon di natura. Nelle sue forme più pure, la teoria considera che nessun ruolo, comportamento o aspetto psicologico, considerato tipico degli uomini o delle donne, trovi una base reale nella natura sessuata dell’essere umano.
Il sesso biologico sarebbe (o dovrebbe essere) sostanzialmente indifferente rispetto alla costruzione dell’identità psicologica e del ruolo familiare e sociale di una persona.
Si introduce quindi la definizione di “identità di genere”, cioè la percezione profonda che un soggetto ha di appartenere a un genere piuttosto che a un altro (uomo, donna, o di solito, anche altri), indipendentemente dal proprio sesso biologico. A questa identità di genere (anche questo è un punto essenziale della teoria) si attribuisce una certa prevalenza sul sesso biologico.
Questa prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico non è da tutti intesa allo stesso modo: per alcuni (più radicali) sarebbe solo l’identità di genere e non il sesso biologico che permetterebbe di rispondere alla domanda “Sono uomo? Sono donna? (Sono altro?)”. In altre parole basterebbe l’auto-percezione di essere donna/uomo/altro, per essere veramente donna/uomo/altro, anche se il sesso biologico indica il contrario. In questa prospettiva l’identità “transgender” (identità di genere contrastante con il sesso biologico) non viene considerata come intrinsecamente problematica, e infatti molti ne auspicano la depatologizzazione, richiedendo la rimozione della “disforia di genere” dalle classificazioni nazionali e internazionali di patologie.
Per altri invece (forse meno radicali) il contrasto tra identità di genere e sesso biologico rimane un problema, ma questo problema si deve risolvere a beneficio dell’identità di genere. In altre parole, in casi di disforia di genere, il problema non si risolverebbe aiutando la mente a armonizzarsi con la realtà corporale, ma all’opposto modificando il corpo perché si accordi il più possibile con la percezione psicologica. Si tratta in questo caso non tanto della normalizzazione del “transgenderismo” (come nella prima prospettiva) ma della normalizzazione del “transessualismo”. In entrambi i casi però ritroviamo la prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico.
Alcune delle conseguenze immediate di questi principi generali della teoria gender, che si ritrovano sostanzialmente in tutte le sue forme, sono le seguenti:
– essendo il sesso biologico praticamente ininfluente dal punto di vista psicologico e sociale, anche nella società familiare il sesso biologico è indifferente. Infatti proprio l’ambito della famiglia è quello maggiormente toccato dalla teoria gender, in quanto esso rappresenta (secondo una corretta impostazione antropologica e morale) il contesto sociale in cui il sesso biologico ha (e dovrebbe avere) maggiore rilevanza. Secondo la prospettiva gender sarebbe quindi indifferente che la famiglia sia composta da un uomo e da una donna, oppure da due uomini o da due donne.
– i comportamenti e i ruoli tipicamente maschili e femminili sono tendenzialmente tutti considerati “stereotipi”. Qui è bene intendersi: riconosciamo senza problemi che esistono stereotipi negativi che riguardano il maschile e il femminile (ad esempio il modello di uomo e donna della TV e della pubblicità: donna magra, sexy, che vale solo per le sue apparenze fisiche; uomo muscoloso, infedele, ecc.). Il problema è che la teoria di genere, volendo (o pretendendo) di combattere i cattivi stereotipi, finisce per cadere nell’estremo opposto: tutti i ruoli e comportamenti “maschili” e “femminili” sarebbero stereotipi culturali, imposti dalla società o dalla famiglia, da decostruire.
A questo punto comincio già a sentire l’obiezione, l’eterno ritornello: “Tutto questo l’avete inventato voi!”.
In effetti, non ho ancora mostrato che tutta questa “bella” teoria viene promossa e applicata per davvero, addirittura da importanti enti ed istituzioni. Forse è tutta una invenzione degli integralisti pro-life, medievali e complottisti (nonché omofobi e transfobici).
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Parte II. Esiste la teoria gender? viene promossa da qualche Istituzione?
Premessa: cercheremo di procedere in modo rigoroso, rimandando ove possibile ai documenti autentici e ufficiali. In questa seconda parte mostreremo come la “teoria gender”, espressione di cui abbiamo spiegato la legittimità e il significato nella prima parte, esista effettivamente, e non solo nelle menti di coloro che la denunciano e pretendono di combatterla. Anzi, viene elaborata o promossa non solo da alcuni ideologi o “studiosi di genere”, ma anche da importanti istituzioni.
Riscontreremo negli atti e documenti istituzionali, e nei progetti destinati alle scuole, le definizioni e i principi propri della teoria gender, oppure anche le conseguenze teoriche e pratiche in quanto derivano o sono collegate contestualmente a quelle definizioni e a quei principi.
In particolare ci interessano (come spiegato approfonditamente nella prima parte):
- le definizioni di “genere” (distinto dal sesso biologico) e di “identità di genere”;
- il principio della sostanziale indifferenza del sesso biologico rispetto alla costruzione dell’identità psicologica e del ruolo familiare e sociale di una persona;
- il principio della prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico;
… e alcune delle conseguenze tipiche della teoria, che spesso si ritrovano nei documenti, in quanto collegate ai suddetti principi e definizioni:
- la qualificazione come stereotipi culturali di genere di praticamente tutti i comportamenti e i ruoli considerati tipicamente maschili o femminili;
- la normalità e promozione delle diverse famiglie omogenitoriali;
- la normalità e promozione dei diversi orientamenti sessuali (in particolare l’omosessualità).
Cominciamo con le citazioni di alcuni autori, studiosi di genere, senza avere la pretesa di esporre nemmeno parzialmente la storia della teoria di genere.
Nel 1955 i medici John Money, Joan Hampson e John Hampson, della John Hopkins University, introducono nella letteratura medica il termine “gender”. Money, nel suo Amore e mal d’amore (Feltrinelli, Milano 1983, p.298-299) formula le seguenti definizioni: il “genere” è “stato personale, sociale e legale di maschio, femmina o misto definito in base a criteri somatici e comportamentali più generali del semplice criterio genitale. (…) L’identità di genere è il vissuto privato del ruolo di genere, il ruolo di genere è la manifestazione pubblica dell’identità di genere di maschio, femmina o di individuo ambivalente (…) quale viene vissuta in particolare nell’immagine di sé e nel comportamento”. Ancora: “L’identità / ruolo di genere comprende tutto ciò che ha a che fare con le differenze comportamentali e psicologiche tra i sessi, indipendentemente dal fatto che siano intrinsecamente o estrinsecamente legate ai genitali”(p. 32-33).
Famoso è l’esperimento condotto da J. Money sui gemelli Reimer proprio per dimostrare l’assunto che il “gender”, comprendente gli aspetti psicologici, comportamentali e sociali, sarebbe una costruzione puramente culturale e sociale, indipendente dal sesso biologico. Non ci soffermiamo sulla questione, trattata tante volte su questo sito.
Su questa linea di pensiero si innesta a un certo punto la cultura femminista più radicale. Simone de Beauvoir, pronuncia quelle parole ormai famose, nel Secondo sesso (Il Saggiatore, Milano 2002, p.325): “Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna.”
Particolarmente esplicito è il pensiero della femminista Shulamith Firestone, nella Dialettica dei sessi (Guaraldi, Firenze 1974, p.12): “Il fine ultimo della rivoluzione femminista non consiste nell’eliminazione dei privilegi, ma nella stessa cancellazione delle distinzioni tra i sessi (…) Si ci sbarazzassimo della famiglia ci sbarazzeremmo anche delle repressioni che vedono la sessualità posta in formazioni specifiche. (…) Il nostro passo finale deve esserel’eliminazione della stessa condizione di femminilità e di infanzia.”
Sempre nel contesto del femminismo, concetti tipici del pensiero gender si trovano anche nel Cyborg Manifesto (1985) di Donna Haraway: “Non c’è nulla nell’essere “femmine” che vincoli naturalmente le donne. Non esiste nemmeno qualcosa come “essere” femmine, in sé una categoria altamente complessa, costruita da controversi discorsi scientifici sulla sessualità (…) La consapevolezza del genere, della razza o della classe è qualcosa che ci viene imposto dalla terribile esperienza storica delle contraddittorie realtà sociali del patriarcato, del colonialismo e del capitalismo” (traduzione mia: cercare testo “There is not even such a state” al seguente link).
Una forma più matura della teoria la troviamo negli scritti di Judith Butler (nata nel 1956, ancora in vita), tra i più importanti esponenti contemporanei della “Gender Theory” e della “Queer Theory”. In Gender trouble. Feminism and the subversion of identity (Routledge, New York 2007, p.7) afferma: “Il genere è costruito socialmente, non è né il risultato casuale del sesso né sembra essere fisso come il sesso. Se il genere rappresenta il significato culturale che assume il corpo sessuato, allora non si può più dire che il genere derivi dal sesso in nessun modo. Portata alle logiche conseguenze, la distinzione sesso/genere suggerisce una discontinuità radicale tra i corpi sessuati e i generi costruiti socialmente.”
In una intervista del 2013 al Nouvel Observateur, Judith Butler precisa di non aver inventato lei gli “studi di genere” e aggiunge: “La nozione di “genere” viene utilizzata dopo gli anni 1960 negli Stati Uniti in sociologia e antropologia. In Francia, in particolare sotto l’influsso di Lévi-Strauss, si è preferito per lungo tempo parlare di “differenze sessuali”. Negli anni ’80 e ’90, l’incrocio tra la tradizione antropologica americana e lo strutturalismo francese ha fatto nascere la teoria di genere (…) Noi non abbiamo mai una relazione semplice, trasparente e innegabile con il sesso biologico. Dobbiamo passare attraverso un quadro discorsivo, ed è questo il processo che interessa la teoria di genere [théorie du genre].”
Noto en passant che nel mondo anglosassone e francese, i cultori degli studi di genere (si veda per altri esempi qui e qui) non si fanno tanti problemi a utilizzare l’espressione “gender theory”, “théorie du genre” (cioè “teoria di genere”) o “gender theorist” (“teorico di genere”), contrariamente a quel che succede da noi dove, per motivi misteriosi e ingiustificati, l’espressione viene rifiutata quasi con orrore (spesso proprio da coloro che la promuovono).
Col passare degli anni e a causa di meccanismi che non ci interessa in questo momento approfondire, queste tesi vengono recepite in documenti provenienti da istituzioni internazionali e nazionali. Limitiamo il nostro discorso ai tempi più recenti.
Tra i documenti internazionali che introducono abbastanza chiaramente la prospettiva gender possiamo sicuramente menzionare la Convenzione di Istanbul del 2011. Il tema affrontato è quello del contrasto della violenza contro le donne, finalità ovviamente condivisibile. Tuttavia questa finalità viene attuata in un contesto che risente della teoria di genere e delle posizioni del femminismo radicale. Nel preambolo si legge: “Riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. A scanso di equivoci si definisce il termine “genere”: “Articolo 3. Definizioni. (…) (c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”. Inoltre si precisa all’art. 4 che l’attuazione delle disposizioni della Convenzione “deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sulla razza, sul colore (…) sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, ecc.”
Il documento internazionale che forse più chiaramente promuove la teoria di genere è una recente Risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, approvata lo scorso 22 aprile 2015, intitolata: “Discriminazione contro le persone transgender in Europa“. Al paragrafo 6.2.1 della Risoluzione si chiede agli Stati di prevedere“procedure rapide, trasparenti e accessibili, basate sull’autodeterminazione, per cambiare il nome e il sesso anagrafico delle persone transgender sui certificati di nascita, carte d’identità, (ecc. …)”. A paragrafo 6.2.4 si chiede agli Stati di “considerare l’introduzione di un’opzione al terzo genere sulle carte d’identità per coloro che lo richiedono”. Al 6.3.3 si chiede di “correggere le classificazioni di patologie utilizzate a livello nazionale e promuovere la revisione delle classificazioni internazionali, in modo da garantire che le persone transgender, inclusi i bambini, non siano considerati come affetti da patologia mentale“.
La Risoluzione chiede, in sostanza, che venga depatologizzata la “disforia di genere”: infatti secondo l’interpretazione più estrema (e pura) del principio dell’indifferenza del sesso biologico, il contrasto tra questo e l’identità di genere non è necessariamente problematico, perché il sesso biologico è indipendente dal profilo psicologico. L’identità transgender non sarebbe patologica. Inoltre per (l’interpretazione più radicale del) principio della prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico, la sola identità di genere sarebbe sufficiente per essere pubblicamente identificato in base al genere percepito (attraverso delle procedure legali rapide e semplici basate sulla autodeterminazione, auspicate dalla Risoluzione), nonostante il sesso biologico contrario.
La Risoluzione ci regala un’altra perla gender. Al paragrafo 5: “L’Assemblea guarda con favore all’emergere deldiritto all’identità di genere, per prima riconosciuto nella legislazione di Malta, che assicura a ogni individuo il diritto al riconoscimento della propria identità di genere, e il diritto a essere identificati e trattati in armonia con questa identità“. A quanto pare, emerge un nuovo diritto umano all’identità di genere. Concretamente, se, ad esempio, una persona che è geneticamente, morfologicamente, neurologicamente, insomma, biologicamente uomo, si percepisse come “donna” (identità transgender), avrebbe il diritto di essere riconosciuto e trattato da tutti come donna. Altrimenti si commetterebbe nei suoi confronti una “discriminazione” sulla base dell’identità di genere e una violazione del nuovo diritto umano (emergente).
Chiarissimo. Per rendere il tutto ancora più chiaro, si può anche consultare il Rapporto esplicativo della Risoluzione che a p.5 ci fornisce tutte le definizioni necessarie (“transgender”, “identità di genere”, ecc.). Il rapporto nota con grande soddisfazione (p.13, n. 57) che l’11 giugno 2014 il Parlamento danese ha approvato delle procedure di riconoscimento del genere che hanno reso la Danimarca “il primo paese in Europa a basare il riconoscimento legale del genere esclusivamente sull’autodeterminazione della persona transgender.”
E’ interessante rilevare che su 7 rappresentanti italiani al Consiglio d’Europa, ben 6 hanno votato a favore si questa Risoluzione ispirata alla più pura teoria del gender (vedi a questo link). Solo un voto contrario. Tutti sono anche deputati o senatori nel Parlamento italiano (due del Pd, tre del M5S; unico voto contrario di un senatore della Lega Nord).
Queste posizioni dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa costituiscono la recezione a livello istituzionale di tesi promosse da associazioni LGBT, o specificamente transgender (come “Transgender Europe“), ma anche da rilevantissime associazioni che operano a livello internazionale per i cosiddetti “diritti umani”.
Si pensi a Amnesty International: questa associazione promuove da anni le tesi più radicali della teoria gender. Per convincersene basta leggere la “Dichiarazione programmatica di Amnesty International sui diritti delle persone transgender“. In questa dichiarazione troviamo tra l’altro una definizione particolarmente ampia di “transgender” (p. 1): “persone la cui identità di genere e/o espressione di genere è differente dalle aspettative convenzionali basate sul sesso biologico assegnato loro alla nascita (…) non tutte le persone transgender si identificano come maschi o femmine; il termine transgender può comprendere persone che appartengono al terzo genere, nonché persone che si identificano con più di un genere o con nessuno (…) Questa definizione include, tra le altre, persone transgender e transessuali, travestiti, crossdresser, no gender, liminal gender, multigender e queer, nonché persone intersessuate e dal genere variabile…”.
Tutti questi “gender”, del resto, sarebbero perfettamente normali e non patologici, in quanto anche Amnesty (a p. 5 e 6) promuove la depatologizzazione di ogni identità transgender. Il documento ovviamente dà per scontata l’assoluta normalità delle famiglie omogenitoriali e dell’orientamento omosessuale (che possono derivare del resto da una transizione di genere).
E’ indicativo che questo documento gender di Amnesty sia reperibile alla sezione “risorse utili” del sitodedicato alla scuola (nel contesto del progetto “Scuole attive contro l’omofobia e la transfobia”). Approfondiremo quest’aspetto nella terza parte del nostro studio.
La teoria gender, promossa a livello internazionale, non poteva che introdursi in qualche modo, sia per via culturale che istituzionale, anche in Italia.
Lasciando da parte per il momento le associazioni, a livello istituzionale non si può non menzionare l’attivismo dell’UNAR in questo senso. L’UNAR è l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, istituito con decreto legislativo del 9 luglio 2003, n. 215, all’interno del Dipartimento delle Pari Opportunità (Presidenza del Consiglio dei Ministri). Nonostante il nome (e il principio di legalità) l’UNAR si occupa spesso di questioni LGBT e ha emanato diversi documenti ispirati alla teoria gender.
Consideriamo le “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT” (reperibili a questo link), dove “T” sta sia per “transessuale” che per “transgender” (come si precisa a p.3). Troviamo facilmente le definizioni, i principi e le conseguenze della prospettiva gender.
Anzitutto le definizioni (a p. 7: identità di genere, ruolo di genere; e poi nel glossario da p. 24: transgender, queer, omonegatività, ecc.). La definizione di “identità di genere” a p. 7 fa già capire l’adesione al principio dell’indifferenza del sesso biologico, rispetto a ciò che costituisce l’uomo e la donna nel senso più profondo, e al principio della prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico: “Identità di genere è il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire: “Io sono un uomo, io sono una donna”, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita.”
Il secondo principio è ancora esemplarmente espresso alla p. 12, rispetto al caso della transessualità: “Per la transessualità vale il principio dell’identità. Se la persona di cui si parla transita dal maschile al femminile, non importa in che fase della transizione si trovi, né se si sta sottoponendo all’iter della riassegnazione chirurgicadel sesso, se lei sente di essere una donna va trattata come tale. Lo stesso vale per la transizione female to male”.
Pure le conseguenze della teoria gender sono palesi nelle “Linee guida”: la promozione dei modelli familiari omogenitoriali è evidente dalle pp. 14 a 18, e la normalizzazione dell’omosessualità (e della transessualità) si rileva in tutto il documento. Anche la considerazione dei comportamenti tipicamente maschili o femminili come meri stereotipi che non hanno mai una base naturale ma sarebbero solo costruzioni sociali, si riscontra ad esempio nella definizione di “ruolo di genere” alle pp. 7-8.
Lo stesso UNAR ha emanato la famosa “Strategia nazionale per il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”. Questa riguarda anche la scuola, ed è quindi oggetto della terza e ultima parte di questo studio. Parte in cui mostreremo come, anche in Italia, la teoria gender si sia infiltrata all’interno del sistema scolastico: strategie nazionali, progetti, materiale didattico, fiabe per bambini.
Solo educazione al rispetto delle diversità, contro il bullismo e le discriminazioni, oppure promozione della teoria gender?
Lo vedremo la prossima volta.
Alessandro Fiore
Fonte: http://www.notizieprovita.it/economia-e-vita/la-teoria-gender-esiste-anche-a-scuola-la-prova-definitiva-parte-ii/
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Parte III. La teoria gender viene introdotta in qualche modo nelle nostre scuole?
Molte direttive, iniziative e progetti rivolti alle scuole hanno per oggetto l’educazione alla parità di genere, la lotta al bullismo omofobico, il contrasto alle discriminazioni, l’educazione al rispetto delle diversità. Queste finalità potrebbero apparire condivisibili. Tuttavia, molti denunciano il fatto che i mezzi indicati per raggiungere finalità come la lotta al bullismo e il rispetto delle diversità si ispirino alla teoria gender, così come sarebbe ispirato al gender il quadro teoricosottostante. Infine le finalità stesse sarebbero almeno parzialmente viziate da un riferimento di natura ideologica.
Vediamo dunque se le definizioni, i principi e le conseguenze della teoria gender si possono riconoscere in alcuni progetti destinati alle scuole, di ogni ordine e grado: progetti che qualche volta sono stati già applicati, altre volte sono stati solo proposti.
Si tenga a mente che, nelle scuole, l’infiltrazione della teoria gender sembra avvenire a volte in modo più subdolo e meno chiaro. Può capitare di trovare in certi progetti espressioni tipiche della teoria gender, eppure non trovare chiaramente espressi i principi della teoria: ad esempio, non tutti i progetti che criticano “gli stereotipi” riguardanti il maschile e il femminile sono chiaramente riconducibili alla prospettiva di genere (benché in generale la tendenza sia proprio quella).
In Italia, una certa importanza in questo contesto deve essere attribuita a un documento dell’UNAR (di cui abbiamo parlato) che è la “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere“. La Strategia, da implementare dal 2013 al 2015, poggia su quattro assi: educazione e istruzione; lavoro; sicurezza e carceri; comunicazione e media. Ci interessa soprattutto il primo. Per redigere il documento l’UNAR si è avvalso di un “Gruppo nazionale di lavoro LGBT”, con funzioni consultive, che comprende tutte associazioni, ovviamente, rigorosamente LGBT. Ad esempio il Circolo omosessuale “Mario Mieli” e associazioni transgender come il Movimento Identità Transessuale e il Consultorio Transgenere. La “Strategia nazionale” comprende un glossario (pp. 46 e ss.) con le definizioni tipicamente alla base della teoria gender: genere; identità di genere (“la percezione di sé come maschio o come femmina o in una condizione non definita”); ruolo di genere; queer; transgender; ecc..
Il documento sembra riconoscere il disturbo da identità di genere e quindi, da questo punto di vista, non sembra far propria la versione più “radicale” della teoria gender, ma parla a più riprese del sostegno ai processi di “transizione di genere” (pp. 16 e 36). Analizzando la parte dedicata alle scuole, troviamo affermazioni proprie della prospettiva gender: a fondamento del bullismo omofobico e transfobico ci sarebbe una “cultura che prevede soltanto una visione eteronormativa e modelli di sessualità e norme di genere“ (p. 20); tra gli obiettivi ci sono quelli di “favorire l’empowerment delle persone LGBT [quindi anche transessuali e transgender, come si specifica a p. 47] nelle scuole, sia tra gli insegnanti che tra gli alunni”, e di “contribuire alla conoscenza delle nuove realtà familiari, superare il pregiudizio legato all’orientamento affettivo dei genitori (ecc.)” (p. 22); tra le misure concrete proposte:“integrazione delle materie antidiscriminatorie nei curricula scolastici (…) con un particolare focus sui temi LGBT“,“accreditamento delle associazioni LGBT, presso il MIUR, in qualità di enti di formazione“ (p. 23).
Abbiamo già parlato nella parte precedente della “Dichiarazione programmatica di Amnesty International sui diritti delle persone transgender“, ispirata alla più radicale teoria gender, e come essa fosse reperibile alla sezione “risorse utili” del sito dedicato alla scuola, nel contesto del progetto “Scuole attive contro l’omofobia e la transfobia”. Un estratto della “Dichiarazione” si trova anche nella guida per docenti “Diritti LGBTI, diritti umani” (a p. 60), di questo progetto rivolto alle scuole secondarie. Nella “guida” troviamo che le definizioni, i principi e le conseguenze della teoria gender sono ricorrenti: oltre al solito glossario gender (p. 47), che riporta una definizione eloquente di “transgender” (“Termine “ombrello” per indicare in senso generale una persona in cui identità biologica, socio-culturale e psicologica non coincidono. In senso ristretto, indica una persona che rifiuta lo “stereotipo di genere”, la suddivisione binaria in maschile e femminile, non identificandosi con nessuno dei due”), a p. 4 vengono ricordate alcune richieste di Amnesty International al Governo italiano, tra le quali: “Eliminare ogni forma di discriminazione nella legislazione sul matrimonio civile, prevedendo il matrimonio per le coppie omosessuali (…) Garantire che gli atti dello stato civile e tutti i principali documenti siano modificabili per rappresentare adeguatamente l’identità di genere“; a p. 34 vengono previste attività da svolgere con gli allievi che consistono nell’immedesimarsi con persone transgender; ci si propone di lottare contro gli “stereotipi” legati al genere e all’orientamento sessuale.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, è necessario aprire una parentesi: come abbiamo detto nella prima parte di questo studio: “riconosciamo senza problemi che esistono stereotipi negativi che riguardano il maschile e il femminile (ad esempio il modello di uomo e donna della TV e della pubblicità: donna magra, sexy, che vale solo per le sue apparenze fisiche; uomo muscoloso, infedele, ecc.). Il problema è che la teoria di genere, volendo (o pretendendo) di combattere i cattivi stereotipi, finisce per cadere nell’estremo opposto: tutti i ruoli e comportamenti “maschili” e “femminili” sarebbero stereotipi culturali, imposti dalla società o dalla famiglia, da decostruire”. Anche pensare che mamma e papà abbiano ruoli specificamente differenti, e quindi insostituibili, sarebbe uno stereotipo di genere.
Da questo punto di vista, riconoscere la normalità delle “famiglie” cosiddette “omogenitoriali”, parificandole alla famiglia naturale uomo-donna, costituisce già di per sé un’adesione a uno dei principi fondamentali della teoria gender: cioè che il sesso biologico non ha nessuna importanza quanto ai comportamenti, i ruoli, l’aspetto psicologico e sociale della persona.
Infatti se la differenza tra i sessi, quanto ai comportamenti e ai ruoli, non ha importanza nella famiglia, a maggior ragione non avrà importanza in nessun altro contesto sociale. Se la differenza sessuale è vista come indifferente rispetto alla dimensione familiare (che è la prima dimensione sociale!) e rispetto al profilo psicologico delle persone nella famiglia (ad esempio lo sviluppo psicologico dei bambini), la differenza sessuale sarà considerata ininfluente in ogni contesto sociale. Infatti la famiglia è la società che in modo più immediato è collegata alla sessualità.
Siamo i primi a dire che la cultura giochi una parte, anche importante, nella formazione dei ruoli sociali e dei comportamenti tendenzialmente attribuiti a uomini o a donne. Nessuno sostiene che i ruoli sociali siano esclusivamente determinati dal sesso biologico: questa è una posizione caricaturale che i teorici del gender attribuiscono qualche volta ai loro oppositori (utilizzando l’argomento dell’uomo di paglia che invece addebitano volentieri alla controparte). Tuttavia la teoria gender dimentica che, molto spesso, l’elemento naturale c’è: molti comportamenti tipicamente maschili e femminili sono tali perché trovano (non una determinazione ma) un fondamentonella natura bio-psicologica dei sessi (il dimorfismo sessuale esiste anche a livello dell’encefalo, con conseguenze sul profilo psicologico e quindi sui comportamenti). (Altre volte invece l’elemento culturale è diretto semplicemente ad esprimere simbolicamente la differenza sessuale, e ciò non è sempre una “imposizione malvagia”).
Se, ad esempio, le femmine scelgono tendenzialmente giochi o lavori diversi dai maschi, questo fatto non è attribuibile semplicemente a uno stereotipo culturale da decostruire (come vorrebbe il gender): ci sono infatti lavori (come quelli che coinvolgono maggiormente la relazione interpersonale. es. infermiera) che realizzano attitudini naturali più tipiche delle femmine; così come ci sono lavori incentrati maggiormente sui meccanismi (es. ingegneria) che realizzano attitudini più tipiche dei maschi. Questo non vuol dire che una femmina non possa fare l’ingegnere o che un maschio non possa fare l’infermiere: vuol dire però che se ci sono proporzionalmente più maschi interessati ai meccanismi e più femmine interessate alla cura delle persone, questo fatto non rappresenta necessariamente una “imposizione culturale” come il gender vuole farci credere, ma lo sviluppo spontaneo di tendenze naturali (come dimostrano, tra gli altri, gli studi del dott. Lippa).
Queste tendenze naturali hanno una importanza ancora maggiore nella società familiare (ed è in questo contesto che la teoria gender commette gli errori più gravi) perché è in questa che la differenza sessuale ha maggior peso: essa è sia essenziale per la genesi della famiglia (generazione tra sessi diversi) che importante per lo sviluppo dei membri della famiglia: il ruolo materno è diverso dal ruolo paterno sia dal punto di vista biologico(specialmente nelle fasi iniziali del rapporto madre-bambino: gestazione, allattamento, ecc.) che dal punto di vista psicologico. Evidentemente, non ogni comportamento tipicamente attribuito a mamma o a papà è “naturale” (lavare i piatti, ecc.) ma ciò non vuol dire che nessun comportamento tipico abbia fondamento nella natura dei sessi.
Se quindi vengono considerati come stereotipi non solo quelli genericamente proposti dalla TV e dalla pubblicità (i veri cattivi stereotipi) ma anche la composizione uomo-donna nella famiglia, e ogni differenza tra il ruolo materno e paterno, allora ci troveremo di fronte a una chiara espressione della teoria gender. Così anche se ognicomportamento tendenzialmente maschile o femminile viene considerato uno stereotipo di genere, da decostruire: cioè se ogni comportamento considerato tipicamente maschile o femminile viene ricondotto esclusivamente a un condizionamento culturale.
Un esempio abbastanza chiaro di questa tendenza a oltrepassare i veri cattivi stereotipi per cadere nelle esagerazioni della teoria gender lo troviamo, tra i tanti esempi che si potrebbero fare, nel progetto “Dillo con parole sue”, per “contrastare la violenza di genere e il bullismo omofobico e transfobico”, applicato nelle scuole primarie e secondarie di Lentate, Cesano, Seveso e Meda (MB) nell’ottobre-novembre del 2014. A p.3 il progetto sembra riferirsi a veri stereotipi: “L’immaginario della donna fisicamente perfetta, ma un po’ “stupidina”, del maschio bello, autorevole e conquistatore uniti con un modello di società incentrata sempre di più su un sistema di bisogni indotti e pratiche soluzioni sempre acquistabili e disponibili”.
Tuttavia poi a p. 6 l’impostazione gender riguardo agli stereotipi emerge: “L’idea che si debba aderire ad un ruolo di genere precostituito per essere considerati “normali” è un ostacolo alla piena realizzazione di chi per qualsiasi ragione non vi si riconosce. Tra le aspettative sociali dell’essere maschi e femmine l’eterosessualità è forse la più forte. (…) L’orientamento sessuale eterosessuale è preferibile all’omosessualità, un’identità di genere congruente al sesso biologico è preferibile alla transessualità, poiché vengono considerati naturali e ovvi; ciò che si distanzia da questa normalità viene considerato un difetto nel binarismo di genere. Chi decide che un certo comportamento è “normale” siamo noi che, ancorati a certi principi e stereotipi, decidiamo di vivere ignorando altre realtà”. Un’impostazione quindi che abbraccia il principio (tipicamente gender) dell’indifferenza del sesso biologico rispetto all’identità psicologica: avere una identità di genere congruente oppure contrastante con il sesso biologico sarebbe ugualmente normale.
Sulla stessa linea si colloca il percorso formativo “Educare alle differenze di sviluppo sessuale, identità di genere, ruolo, orientamento affettivo sessuale e situazione familiare”, proposto da “Intersexioni”, per il personale educatore e insegnante e realizzato a Vaiano (Prato) nel gennaio 2015. Si legge che “Il percorso mira allo sviluppo di conoscenze, abilità e competenze nell’utilizzo a fini educativi dei più recenti risultati degli studi di genere, dei queer studies e dei family studies”. E’ costituito da tre moduli intitolati: “La formazione dell’identità e gli stereotipi di genere”; “Dalla famiglia alle famiglie”; “Binarismo sessuale, varianza di genere e accoglienza delle differenze”.
Nel mese di ottobre 2014, la Regione Lazio spende 120 mila euro per realizzare una serie di progetti scolastici contro l’omofobia. Il presidente della Regione Zingaretti sottolineò l’importanza della cosa anche per l’ampiezza dell’iniziativa, rivolta a ben 25 mila studenti di 50 scuole secondarie di primo e secondo grado del Lazio. Uno dei progetti si intitola“LGBT … All Right(s)!” e si propone di far acquisire a docenti e a studenti “informazioni, conoscenze, strumenti e metodologie per combattere l’omo-lesbo-transfobia e promuovere i diritti sociali per le persone LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali)”, così anche trasmettere informazioni “relative ai concetti di identità di genere/sessuale, orientamenti sessuali LGBT“.
Merita di essere menzionato anche il progetto “Rainbow – Playful Toolkit” (Milano, 2012), finanziato dall’Unione Europea, che “mette in connessione associazioni gay e lesbiche europee, scuole e professionisti dei media attraverso lo studio degli stereotipie promuove il diritto di bambini e bambine, ragazze e ragazzi alla loro identità – con particolare riferimento algenere e all’orientamento sessuale …” (p. 5). Leggiamo a p. 7: “Le prescrizioni sociali sul genere (ruoli di genere) amplificano quindi le differenze tra maschi e femmine, che non sono però mai “universali”. (…) Tra le aspettative sociali relative all’essere maschi e femmine, l’eterosessualità (…) è forse la più forte”. A p. 8: “Gli stereotipi relativi al genere (…) condizionano la nostra educazione sin dalla nascita anche in riferimento alle emozioni”. A p. 9: “È importante riconoscere questa discriminazione sociale … contrastarla e superarla, dando visibilità ai tanti esempi di matrimonio omosessuale e di famiglie omogenitoriali”. Il progetto contiene inoltre dei giochi, tra i quali: “Chi resta indietro?” (pp. 18-19), in cui si chiede ai ragazzi di calarsi nei panni di un personaggio, che può essere ad esempio un“uomo gay con compagno convivente da 10 anni”, oppure un “transessuale MtF con compagn* extracomunitario”(l’asterisco è tipico del linguaggio gender, per non “discriminare” utilizzando una parola al maschile o al femminile).
Infine, i principi e le conseguenze della teoria gender hanno ispirato tutta una serie di favole rivolte a bambini molto piccoli, incluse in progetti destinati anche agli asili nido o presenti in molte biblioteche comunali nel settore infanzia.
Un esempio noto è “Nei panni di Zaff” (edizioni Fatatrac, 2005). Il libro è stato inserito in diversi progetti alla lettura: ad esempio è stato oggetto di una “lettura animata” ai bambini delle scuole primarie nel progetto “Generare culture non violente”, a Bari nel mese di novembre 2014. Racconta la storia di un bambino, potremmo dire, transgender, che vuole essere una “principessa” e che realizza felicemente il suo desiderio. Leggiamo: “Tutti gli dicevano: Ma Zaff! Tu 6 maschio. Puoi fare il re … ma la principessa proprio no. Le principesse il pisello non ce l’hanno!!”; Zaff: “E va bene, ho il pisello ma che fastidio vi dà? Lo nasconderò ben bene sotto la gonna …”. A un certo punto arriva la principessa “sul pisello”, che consegna il suo vestito a Zaff, dicendogli che potrà essere “la principessa col pisello”. “Il segreto per vivere per sempre felici e contenti: Essere ciò che sentiamo di essere senza vergognarsi mai”.
A livello delle conseguenze della teoria di genere, molte favole promuovono la normalità e la “bellezza” dell’omosessualità e, in particolare, dell’omogenitorialità. E’ il caso della favola “Perché hai due papà?” (edizioni Lo Stampatello, 2014), che è stata proposta in asili nido, ad esempio, nel Comune di Venezia e a Roma (asilo nido “Castello Incantato”, Bufalotta, novembre 2014). Si tratta della storia di una coppia gay che ricorre all’utero in affitto per avere dei bambini. Nella favola si legge: “Franco e Tommaso si amavano: volevano fare una famiglia e avere dei bambini. (…) Franco si è fatto dare un ovino nella clinica americana. (…) i dottori hanno fatto incontrare l’ovino e il semino portati da Franco e Tommaso, e li hanno messi nella pancia di Nancy: Lia ha cominciato a crescere! Lia ha due papà: nessuno dei due l’ha portata nella pancia ma entrambi, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori.” E’ preoccupante questa promozione della cosiddetta omogenitorialità verso bambini così piccoli, oltretutto giustificando e presentando come “meravigliosa” la pratica dell’utero in affitto che costituisce reato nel nostro paese.
Molti altri esempi di progetti e iniziative gender nelle sistema scolastico si possono reperire nel dossier pubblicato da ProVita su questo tema (la lista di casi però non è esaustiva).
Recenti mutamenti normativi (su questo sito abbiamo parlato spesso della “Buona scuola“) potrebbero portare a introdurre la prospettiva gender obbligatoriamente anche nelle attività curricolari.
Insomma, la teoria gender esiste, anche nelle nostre scuole.
Purtroppo non ci siamo inventati nulla.
Alessandro Fiore
Fonte: http://www.notizieprovita.it/filosofia-e-morale/la-teoria-gender-esiste-anche-a-scuola-la-prova-definitiva-parte-iii/
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