La Repubblica – 28 gennaio 2012
DOVREMO presto sostituire il cerchio stellato della bandiera europea con una corona di spine? È la domanda che sorge spontanea di fronte all’ accordo approvato alcune settimane fa dai Governi della zona euro. È evidente che nel pieno della tempesta bisognava fissare senza ambiguità la rotta in direzione della riduzione dei deficit. Esponendo l’ Europa al rischio di un panico finanziario destinato a sfociare in una recessione drammatica, il debito è diventato un flagello che minaccia di mandare al tappeto l’ intera economia del continente. Per evitare il dramma servono sforzi, serve un calendario, serve un rimborso garantito. I risparmiatori che hanno dato fiducia agli Stati europei devono essere rassicurati e i Governi hanno fatto bene, quindi, a esigere impegni precisi, con cifre chiare, che consentano di garantire ai creditori dell’ Europa che i loro soldi sono al sicuro. Ma il rimborso del debito non può fare le veci della politica europea. È un vincolo, una condizione, una premessa. Al di là si apre il campo delle possibilità. L’ Europa non può ridursi a una cinghia che viene stretta sempre di più al ritmo delle crisi. L’ autore è direttore del “Nouvel Observateur” . La parte relativa alla crescita nell’ accordo che si prepara è totalmente insufficiente. L’ Europa deve intervenire anche per aiutare la ricerca, favorire l’ industria, armonizzare le leggi di tutela dei lavoratori per evitare il dumping sociale. Deve dare al continente uno scopo, un obiettivo, una prospettiva
Se l’ Europa si relega al ruolo del padre severo, come può sperare di convincere i popoli ad aderire alla sua politica? I partiti politici europeisti devono tenere a mente le brucianti sconfitte a cui sono andati incontro quando si sono arrischiati a chiedere ai cittadini il loro parere sull’ Europa, attraverso referendum. Nella maggior parte dei casi questi tentativi democratici si sono conclusi con una sconfitta clamorosa, come abbiamo visto in Francia al momento del voto sulla Costituzione europea. Dev’ esserci una ragione per questi ripetuti insuccessi elettorali. In realtà le ragioni sono due. La prima ha a che fare con la sottomissione della maggioranza degli Stati europei ai dettami dell’ ortodossia economica in vigore nel mondo della finanza e nei mercati. Proprio quando questo dogmatismo ha portato alla crisi finanziaria che conosciamo, un’ élite europea continua ad aggrapparsi ostinatamente alle vecchie convinzioni: arretramento dello Stato, riduzione delle tasse, deregolamentazione, abbassamento del livello delle garanzie per i lavoratori dipendenti. Per i popoli europei, come è perfettamente logico, l’ Europa diventa sinonimo di insicurezza economica e durezza sociale. Non è il modo migliore per ripristinare la popolarità di un progetto che già per sua stessa natura provoca turbamenti. La seconda ragione è più politica. Gli Stati europei devono urgentemente riflettere sull’ incarnazione simbolica, personale, del progetto europeo. I meccanismi attuali sono troppo complessi, troppo lenti e troppo anonimi. Se vogliamo un’ Europa dobbiamo cambiare la governance dell’ Europa. Dobbiamo distinguere innanzitutto la cerchia dei Paesi più impegnati, con un nocciolo duro costituito dalle nazioni fondatrici, che per loro stessa natura svolgeranno un ruolo di avanguardia
Gli altri, di adesione più recente, saranno poi liberi di seguire o non seguire questo movimento in funzione dei loro interessi. Dopo di che bisognerà designare dei responsabili con un peso politico – non me ne vogliano gli interessati – maggiore di quello della signora Ashton o del signor Van Rompuy. Dobbiamo arrivare alla creazione di un vero governo economico dell’ Unione, in grado di gestire la crisi finanziariae di favorire, attraverso un’ azione decisa, la crescita del continente. Questo Governo deve parlare con una voce forte. Dopo Jacques Delors non siamo più riuscitia trovare un portavoce con una personalità in grado di rimanere impressa alla cittadinanza. Qualunque sia il meccanismo istituzionale utilizzato – una Commissione più forte, un Consiglio europeo più visibile o qualunque altro strumento – l’ Europa tornerà a farsi ascoltare dalle popolazioni solo incarnandosi in persone. Gli Stati naturalmente diffidano dell’ emergere di questo potere sovranazionale. L’ evoluzione della crisi finanziaria dimostra che hanno torto. Ovunque in Europa, e anche sui mercati, ci si lamenta della lentezza del processo decisionale europeo e della confusione che caratterizza la sua comunicazione. Alla fine, grazie al vuoto politico, si è imposto un direttorio Merkel-Sarkozy: subito sono insorti timori di un’ Europa franco-tedesca. È la dimostrazione che bisogna trovare qualcos’ altro. L’ Europa è una costruzione politica e deve fare politica. Con i popoli. (Traduzione di Fabio Galimberti) –
LAURENT JOFFRIN – Direttore del Nouvelle Observateur
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