L’Europa e il Crocifisso – L’iter giudiziario a Strasburgo dal divieto (2009) al ribaltamento della sentenza (2011)

Riportiamo qui di seguito alcuni articoli di “Avvenire”, che trattano dell’iter giudiziario riguardo all’affissione del crocifisso nei luoghi pubblico.

* * *

La triste deriva di Strasburgo

Quei giudici che vorrebbero farci tutti più poveri (1)

La Corte di Strasburgo ha aperto le ostilità contro il crocifisso nelle scuole, con una sentenza che non soltanto è andata oltre le sue competenze (e la sua stessa giurisprudenza), ma ha dato una interpretazione gelida, esclu­sivista, antiumanistica della libertà religiosa. Perché la libertà religiosa è una libertà aperta a tutti, inclusiva, che dialoga e insegna ai gio­vani a dialogare con gli altri, a vedere nei sim­boli religiosi segni di affratellamento tra gli uo­mini. La Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 prevede che il ragazzo sia educato «nel rispetto dei valori nazionali del Paese nel quale vive e del Paese di cui può essere origi­nario e delle civiltà diverse dalla sua» (artico­lo 29). Per Strasburgo questa Convenzione non esiste. Esiste l’assenza di valori, esiste un de­serto nel quale ciascuno di noi nasce per ca­so, senza una storia ricca di eventi, eroismi, valori e simboli religiosi ed etici, tra i quali il cro­cifisso è il più noto in tutto il mondo.

L’aspetto più doloroso della pronuncia è quan­do essa parla del crocifisso come di un simbolo di parte, che divide e limita la libertà di edu­cazione, ignorando che il crocifisso è, dovun­que, simbolo di pace e di amore tra gli uomi­ni, è all’origine di una spiritualizzazione che ha animato e permeato la cultura occidentale per espandersi con linguaggio universale in tutto il pianeta. Il crocifisso ricorda chi è andato in­contro alla morte senza colpa per aver tra­smesso un messaggio di spiritualità e di fra­tellanza, chi ha predicato l’amore per il pros­simo come comandamento eguale all’amore verso Dio, chi ha annunciato nel discorso del­la Montagna il riscatto per gli ultimi e per chi soffre dell’ingiustizia, ha promesso il regno di Dio a chi opera bene nella vita terrena andan­do incontro agli altri, a chi è malato, a chi non ha nulla e ha bisogno di tutto. Questo è Gesù di Nazaret raffigurato nel simbolo della Croce. Per questi insegnamenti – e per aver alimen­tato la fede e la spiritualità di generazioni di uo­mini nel corso dei secoli – è conosciuto, ama­to, rispettato e venerato in tutti gli angoli del­la terra. Aprire le ostilità verso il crocifisso vuol dire opporsi a quanto di più alto e spirituale sia entrato nella storia dell’umanità, vuol dire fa­re la guerra a se stessi e alla propria coscienza. Per sette giudici di Strasburgo il crocifisso non sarebbe un simbolo neutrale, ma dietro que­sta asserita neutralità si nasconderebbe un provincialismo arido, un vuoto antropologi­co, perfino un filo di ignavia.

Scriveva Jhoann Ficthe che «il cuore del cosmopolita non è o­spizio per nessuno», intendendo dire che gli uomini hanno radici e identità, senza le quali non possono parlare con altri, non possono accogliere con amore altre persone. Un Paese che voglia essere soltanto neutrale sarebbe un guscio vuoto, una parentesi fredda nel fluire della storia. Anche un’Europa che giunga al punto di negare, nascondere, o abbattere, la propria tradizione e identità cristiana diven­terebbe una terra di nessuno, derisa dagli al­tri, incapace di trasmettere i suoi valori più profondi, di confrontarsi con altri popoli e con­tinenti proprio in un’epoca di globalizzazione che chiede incontro e dialogo. Quale europeo avrebbe il coraggio di chiede­re all’Asia buddista di togliere dagli spazi pub­blici i simboli di Buddha il compassionevole, o all’Asia induista le ricche raffigurazioni di quella religione, o ai musulmani di nasconde­re il Corano, tacere il nome di Allah in pubbli­co e celare la propria fede nelle scuole? Nes­suno avrebbe il coraggio di farlo, perché pro­verebbe istintivamente vergogna interiore nel proporre agli altri di spogliarsi della propria storia e tradizione religiosa.

Chi predicasse questa neutralità sarebbe respinto come un e­straneo, riguardato come un essere senza cuo­re e passione. Il crocifisso non divide gli uo­mini, li unisce in un orizzonte di valori che so­no a servizio dell’umanità intera, alla base del dialogo interreligioso per il bene degli uomini e della società. Con questa sentenza, una cer­ta Europa perde di nuovo l’innocenza, come altre volte è avvenuto in passato, perché tradi­sce sé e le proprie origini, apre una ferita nel­la propria anima, e offende con il crocifisso tutti i simboli e ogni coscienza religiosa. Se ap­plicassimo la pronuncia di Strasburgo al mon­do intero, questo – come ha notato ieri il pre­sidente della Cei, cardinal Bagnasco – diver­rebbe più povero. E si allontanerebbe un po’ dal cielo. Ma la stragrande maggioranza degli uomini non vorrebbe una deriva così triste e continuerebbe a venerare ed esibire con or­goglio i simboli della propria fede.

Carlo Cardia

Avvenire 5 novembre 2009

 

* * *

CORTE EUROPEA

Sentenza sul Crocifisso, una sintesi (2)

Corte europea dei diritti dell’uomo – Sez. II – Decisione 3.11.2009

LAUTSI contro Italia
(ricorso n° 30814/06)

Articoli 2, prot. 1 (diritto all’istruzione), articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), articolo 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione), articolo 10 (libertà di espressione) della Convenzione.

L’esposizione del crocifisso nelle scuole lede la libertà di aderire ad una religione,diversa dalla cattolica,  ma anche quella di non aderire ad alcuna religione, specie se collegata a personalità in formazione, quali quelle dei discenti.

Il Fatto

La signora Soile Lautsi, di origine finlandese,  ha presentato ricorso alla Corte di Strasburgo in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale, lamentando che l’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica frequentata dai suoi figli, Dataico e Sami Albertin, rispettivamente di undici e tredici anni, avrebbe costituito un’ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e di religione nonché con il diritto ad un’educazione e ad un insegnamento conformi alle proprie convinzioni religiose e filosofiche.
La ricorrente, nel luglio del 2002, aveva impugnato dinanzi al Tar Veneto la deliberazione del consiglio di istituto con cui si era stabilito di mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche. Nel corso del giudizio, il Tar, alla luce del principio di laicità dello Stato e, comunque, degli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale  degli articoli 159 e 190 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), come specificati, rispettivamente, dall’art. 19 (e allegata tabella C) del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 e dall’articolo 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 e dell’art. 676 del predetto d.lgs. n. 297 del 1994, “nella parte in cui includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche”. La Corte costituzionale, con ordinanza del 13 dicembre 2004, n. 389, aveva dichiarato manifestamente inammissibile la questione ritenendola, in realtà, riferita alle norme regolamentari richiamate che, prive di forza di legge, esulano dal sindacato della Corte. Nel marzo del 2005 il Tar rigettava il ricorso. Nel febbraio del 2006 la sesta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n.556 del 13 febbraio 2006 confermava la sentenza di primo grado, ravvisando nel crocifisso un valore laico della Costituzione italiana, rappresentativo dei valori della vita civile. ( a cura di Corrado Bile)

Il Diritto

La Corte ha  proceduto ad un’interpretazione dell’articolo 2 del protocollo 1 in coordinamento con quella degli articoli 8, 9 e 10 della Convenzione. In particolare, ha ritenuto di collegare il principio di rispetto delle convinzioni religiose a quello, fondamentale, all’istruzione, negando la possibilità che la scuola possa essere luogo di proselitismo, ma, piuttosto, di incontro di culture e religioni diverse. La Convenzione, secondo la Corte, riconosce il diritto di credere in una religione, ma anche di non credere in alcuna religione. Richiamando la decisione Karaduman/Turchia del 3 maggio 1993, la Corte osserva che la manifestazione dei simboli di una religione può costituire motivo di pressione sulla libertà degli studenti, specie se in età formativa. L’esposizione del crocifisso potrebbe, dunque, essere “inquietante” per i seguaci di altre religioni o per quelli che non ne seguono alcuna. Travalicando e contestando le considerazioni contenute nella sentenza del Tar Veneto richiamata in premessa, e confermata dal Consiglio di Stato, la Corte ha ritenuto che l’esposizione nelle scuole pubbliche del crocifisso ha un valore eminentemente religioso, proprio della religione cattolica, prevalente in Italia, e, dunque, vulnera la libertà negativa di poter non aderire ad alcuna religione (già riconosciuta nella sentenza Dahlab/Svizzera del 1998) ed è altresì in contrasto con il pluralismo religioso, valore da difendere e tutelato in ambito familiare, pubblico ed espressivo dagli articoli 8, 9 e 10 della Convenzione e 2 del protocollo n. 1.

(a cura di Umberto de Augustinis, dal sito della Presidenza del Consiglio)

Avvenire 10 novembre 2009

 

* * *

PALAZZO CHIGI

Crocifisso, l’euroricorso obbligherà alla coerenza

Ci sono tutte le condizioni («elementi giuridici e di fatto») perché la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo riveda la sentenza contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Lo attesta Carlo Cardia, docente di diritto ecclesiastico a Roma Tre, che ha curato uno studio sul tema (“Identità religiosa e culturale europea”) presentato ieri in una conferenza stampa a Palazzo Chigi dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.Nel testo che sarà illustrato nella sua versione integrale il 4 maggio a Palazzo Madama con l’intervento anche del presidente del Senato, Renato Schifani, si afferma tra l’altro che, se non fosse modificato, il pronunciamento di Strasburgo produrrebbe un’«iconoclastia laica a senso unico» a danno di un simbolo che ha un valore di «pace e di apertura agli altri». In altri termini si avrebbe una scuola italiana «ricca dei colori di tante religioni, a cominciare dall’Islam, ma priva dell’unico simbolo» che rappresenta la nostra tradizione.

La Grande chambre della Cedu, ha riferito Letta, il 30 giugno esaminerà il ricorso italiano contro la sentenza (già dichiarato «ammissibile»). Comunque il governo il 30 aprile presenterà un’ulteriore memoria illustrativa che si «farà forte» dello studio di Cardia. Il suo lavoro, che «esplora la materia in maniera molto ampia, approfondita, colta», con riferimenti «culturali e filosofici», è stato «molto apprezzato» a Palazzo Chigi. L’esecutivo, perciò, gli ha commissionato anche uno studio sui simboli di tutte le religioni, perché possa condurre all’approfondimento delle tematiche di tale simbologia e della sua presenza nei luoghi pubblici.

Cardia si è detto «fiducioso» sulla decisione di Strasburgo, perché ritiene che la Corte «a suo tempo non abbia tenuto conto di elementi molto importanti, incorrendo anche in qualche caso in veri e propri errori, anche da un punto di vista tecnico». Tra di essi il fatto che la Cedu ha contraddetto la sua stessa giurisprudenza più che decennale tutta improntata al rispetto del principio di «sussidiarietà», per cui la discrezionalità delle decisioni in materia religiosa spetta alle autorità nazionali. In una sentenza del 1994, ad esempio, si riconosce la necessità di rispettare i sentimenti della grande maggioranza dei Tirolesi «cattolici romani».

Cardia ha ricordato inoltre che in base allo Statuto del Consiglio d’Europa del 1949, i governi firmatari sono «irremovibilmente legati ai valori spirituali e morali, che sono patrimonio comune dei loro popoli e la vera fonte dei principi di libertà personale, libertà politica e preminenza del diritto, dai quali dipende ogni vera democrazia».

Strasburgo, poi, secondo il giurista, ha commesso un altro svarione «macroscopico» attribuendo la normativa sul crocifisso a una posizione confessionale dello Statuto albertino, secondo cui la cattolica è la sola religione di Stato. In realtà l’esposizione del simbolo è prevista da leggi successive di uno Stato talmente «separatista» nei confronti della Chiesa da adottare leggi antiecclesiastiche. «La Corte evita di esaminare – si legge ancora nel rapporto di Cardia – l’impianto complessivo della disciplina costituzionale italiana fondato su una concezione di laicità positiva», «sociale», aperta al pluralismo (sono state ricordate, anche da Letta le intese stipulate con molte confessioni religiose). Una concezione dunque nettamente diversa da quella «negativa» della Francia, dove sono proibiti tutti i simboli religiosi a cominciare dal velo islamico per le donne, lo chador.

Interessante a questo proposito che la Corte interpellata su di esso per due volte, non si è affatto pronunciata contro il velo. Un’altra sottolineatura in blu meriterebbe quella parte della sentenza secondo cui il crocifisso simboleggia soltanto il cattolicesimo, quando invece riguarda il cristianesimo nel suo complesso: il mondo ortodosso, tra i primi a protestare per la sentenza contro l’Italia, come quello riformato protestante.

Il pronunciamento della Cedu, peraltro, «descrive una scuola italiana che non esiste» in cui sarebbe violata (ed è questa solo «un’asserzione ideologica») la libertà religiosa delle minoranze, mentre invece essa è protetta con una pluralità di presenze religiose, disciplinate giuridicamente che «eliminano ogni monismo e ogni possibilità di condizionamento dei ragazzi». In ogni modo, conclude Cardia, i diritti delle maggioranza «saranno almeno uguali a quelli appartenenti alle minoranze, e lo sviluppo della multiculturalità li fa emergere in modo ancor più netto e limpido rispetto al passato».

 

Pier Luigi Fornari

 

Avvenire 27 aprile 2010

* * *

L’ANALISI

Cultura e storia unica bussola degli Stati

Il 28 gennaio scorso è stato presentato dall’Italia un ricorso alla sentenza pronunciata il 3 novembre. Il documento tra l’altro ha sottolineato che «imporre a uno Stato di rimuovere il simbolo religioso che esiste già e la cui presenza è giustificata dalla tradizione del Paese (senza che questo simbolo obblighi all’adesione di fede), implica un valore negativo contro ciò che rappresenta questo simbolo e viola la libertà religiosa». Inoltre il ricorso del governo chiede «se la semplice presenza di “inerti”, come il crocifisso, possa turbare la coscienza del non credente, o se, invece, non si utilizzi questo turbamento per manifestare una vera intolleranza della dimensione religiosa».

Peraltro, argomenta il ricorso, «la neutralità assoluta dello Stato in materia religiosa è una chimera». Infatti qualsiasi normativa in materia «può essere un modo, una posizione che può offendere la sensibilità di un certo numero di persone, come è inevitabile e riconosciuto dalla stessa Corte. Così, in questo caso, le persone di fede potrebbero sentirsi offese per il fatto di non poter vedere il loro simbolo religioso sul muro». In proposito, il ricorso cita il giurista ebreo Joseph Weiler, il quale ha osservato che «la rinuncia da parte di uno Stato a tutte le forme di simbolismo religioso non è una posizione più neutrale di quella di chi aderisce a una forma di simbolismo religioso determinato». Nel contesto della realtà storica e della cultura italiana, rimuovere il crocifisso dalle pareti delle scuole non ha nulla a che fare con il comportamento di uno Stato veramente laico, ma, ancora citando Weiler, «significa semplicemente che si concentrano nel simbolismo dello Stato, una visione del mondo piuttosto che un’altra, passando per tutte le neutralità».

Il ricorso accenna, infine, al principio di sussidiarietà: «Inoltre, come riconosciuto dalla stessa Corte, le autorità nazionali hanno una notevole discrezionalità in una materia così complessa e delicata, strettamente legata alla cultura e alla storia». Poiché «la neutralità si oppone allo stato confessionale che promuove apertamente una particolare religione, ma anche allo stato basato su un secolarismo militante che promuove l’agnosticismo o l’ateismo, ne consegue che l’incompetenza dello Stato a rispondere a domande sulla trascendenza non può condurre anche alla promozione di ateismo o di agnosticismo con l’eliminazione dei simboli religiosi dalla vita pubblica».

La memoria dell’Italia presentata il 30 marzo ribadisce che l’errore della Corte è proprio questo: «optare per la neutralità, mentre si realizza, in effetti solo una posizione di vantaggio a favore di un atteggiamento a-religioso o anti-religioso; la prova è che in questo caso, la ricorrente, che è partner della Uaar (Unione degli ates e degli agnostici, razionalisti) agisce in quanto ateo militante. Il suo scopo è semplicemente quello di ottenere, con il pretesto della laicità dello Stati, che la sua ideologia a-religiosa o addirittura anti-religiosa prevalga: in questo caso sulla religione professata dalla maggioranza della popolazione, e, come vedremo in seguito, contro la volontà della stragrande maggioranza degli altri genitori. Il riferimento alla laicità dello Stato fatto dal ricorrente (la quale laicità non ha alcun fondamento nella Convenzione) non è che una invocazione per imporre una ideologia a-religiosa o anti-religiosa per qualsiasi religione e cancellare la tradizione del Paese ospitante».

Secondo la memoria inoltre la Corte si basa su «una concezione strettamente individualistica della religiosità», che non si attaglia all’Italia e ad altri Paesi europei. Il documento cita la ricerca fatta dal professor Carlo Cardia, in cui si sostiene che il concetto di neutralità in Italia è molto diverso dalla laicità francese; è più benevolo verso qualsiasi tipo di religione, ma tuttavia anche coerente alla Convenzione. Sulla base dell’analisi dei pronunciamenti passati si osserva poi che in applicazione del principio di sussidiarietà «la Corte ha riconosciuto che le autorità nazionali sono in una posizione migliore rispetto al giudice europeo per valutare le situazioni locali e l’applicazione della Convenzione a queste specifiche realtà. Al tal fine la Corte riconosce agli Stati membri un “margine di discrezionalità nazionale”, strettamente correlato al grado di “consenso” esistente tra i Paesi europei».

Degno di nota infine quanto decise nel gennaio del 2006 la sesta sezione del Consiglio di Stato ponendo fine alla vicenda in Italia. L’esposizione del crocifisso anche per i non credenti «è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civilità italiana».

Pier Luigi Fornari

Avvenire – 30 giugno 2010

 

* * *

CORTE EUROPEA: IL RIBALTAMENTO DELLA SENTENZA DEL 2009 (15 contro 2)

Cardia: il più bel regalo per i 150 anni della nazione

«È il più bel regalo che potessimo ricevere per i 150 anni dell’unità d’Italia». Non nasconde la sua soddisfazione per la sentenza il giurista Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico a Roma Tre. Alla sentenza di primo grado della Corte europea dei diritti dell’uomo, ieri ribaltata, non si era rassegnato e aveva messo nero su bianco in un volume parecchie delle ragioni che ieri la Grande Chambre ha accolto (Identità religiosa e culturale europea. La questione del Crocifisso, Allemandi editore). Libro che è stato base teorica per il ricorso vincente dell’Italia.

Professore, si aspettava questo risultato? E una maggioranza di 15 a 2?
Voglio rivendicare di essere stato uno dei pochi che ci ha creduto fino in fondo. Perché, conoscendo la giurisprudenza precedente della Corte, la sentenza di un anno fa era scandalosa. Molti dicevano: ma è stata approvata da tutti e sette i giudici! Che significa, anche 2mila persone possono sbagliare insieme, ribattevo.

Cosa l’ha colpita in quest’ultimo verdetto?
La notazione, molto bella, che in Italia la scuola è aperta a tutti. Anzi qualche volta – pensi un po’ – fanno obiezione al vescovo. Da trent’anni abbiamo una scuola pluralista, e la corte ne ha tenuto conto. E si tratta di un riconoscimento della nostra laicità positiva, aperta, che non c’è mai stato prima in Europa.

Quali i cardini di questa sentenza?
Uno di principio e uno di merito. Il primo è il riconoscimento che ogni Paese ha il diritto di dare il giusto rilievo alla propria tradizione. E questo proprio in forza delle norme europee, della Convenzione per i diritti dell’uomo. Perciò la tradizione cristiana, che è qualcosa di vivo, ha un suo spazio e un suo ruolo da svolgere.

Passando al merito della questione?
Qui la Corte fa intravedere un elemento importante: il simbolo religioso in sé non comporta la lesione dei diritti del ragazzo o della famiglia, non è elemento di divisione. O addirittura di parte. Come, con un certo scandalo mio – ma non solo –, aveva affermato la sentenza di primo grado. Qui si afferma, invece, in modo sottile che esso non deve essere vissuto in maniera negativa, come se fosse ostile. Vale per la croce, ma anche per altri simboli.

Nessun indottrinamento o pressione, dunque.
Appunto. Il simbolo va visto in modo positivo, come integrazione della nostra identità italiana e – possiamo aggiungere – europea.

Quali effetti potrà avere la decisione dal punto di vista culturale oltre che giuridico, politico e sociale proprio sulla costruzione dell’Europa futura?
Innanzitutto ripara il torto fatto da quella precedente. Si badi bene, non solo all’Italia, ma alla stessa giurisprudenza trentennale della Corte. Inoltre lancia il messaggio che l’identità e la tradizione cristiane devono trovare il loro giusto posto – giusto, non esagerato, e ciò è positivo – ai livelli sociale, giuridico e giurisprudenziale. La tradizione integra i diritti di libertà. E ciò fa guardare positivamente al futuro. Perché finora c’è stato un certo atteggiamento restrittivo: si pensi all’obiezione di coscienza in materia di aborto e biotecnologie. E anche a una certa volontà di emarginare la religione, confinandola nel privato.

In pochi giorni il fronte anti-crocifisso incassa due sonore sconfitte, se si possono mettere insieme la sentenza della Cassazione italiana sul giudice Tosti e ora quella di Strasburgo. Nessuna lesione della laicità, dicono entrambe le corti.
La Cassazione si è pronunciata su un caso particolare. Qui, invece, siamo a un caso generale, a una sentenza più ariosa, che soprattutto riguarda tutta l’Europa. Con l’Italia si sono schierati molti Stati di tradizione ortodossa. Il crocifisso sta quasi ovunque, tranne in Francia. Ed è importante la sottolineatura che le tradizioni vanno rispettate. In altre sentenze era prevalsa l’influenza della laicità alla francese. Stavolta viene riconosciuta la nostra concezione di laicità aperta.

Gianni Santamaria

Avvenire – 19 marzo 2011

* * *

INTERVISTA

 

«Crocifisso: così abbiamo convinto  i giudici della Grande Chambre»

Un fulmine a ciel sereno, che ha generato un allarme in svariati Paesi del Consiglio d’Europa, spingendoli a entrare in contatto con noi per difendere un simbolo che appartiene anche alla loro tradizione». Nicola Lettieri, rappresentante dell’Italia a Strasburgo nel dibattimento del 30 giugno davanti alla Grande Chambre, e ora giudice di Cassazione, racconta le reazioni provocate dalla sentenza di primo grado che ha dato ragione al ricorso di Soile Lautsi, alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.

Un pronunciamento sconcertante, dunque, quella sentenza di primo grado…
Infatti sarebbe stato auspicabile che la camera giudicante, in caso di una prevalenza dell’orientamento negativo per il nostro Paese, rinviasse la decisione alla Grande Chambre.

Su che base?

La presenza dei simboli religiosi in uno spazio pubblico è un tema di grande importanza, non è una cosa che può decidere una semplice camera di sette componenti, anche perché la giurisprudenza europea è fatta di precedenti, sull’esempio di quella anglosassone. In questa materia precedenti non ce n’erano, quindi il pronunciamento sarebbe spettato direttamente alla Grande Chambre con un’udienza pubblica nella quale sono presenti metà dei giudici della corte.

Quale la strategia difensiva all’indomani del 3 novembre 2009?
Dimostrare che era una questione controversa negli ordinamenti europei. E quindi gli Stati, in base al cosiddetto “margine di apprezzamento”, la possono regolare come meglio credono, entro un certo limite di ragionevolezza.

Ma come avete fatto ad ottenere che ben dieci Paesi presentassero memorie a nostro favore…
In realtà all’inizio siamo stati noi ad essere contattati. A cominciare dalla Lituania, Malta, San Marino, vari Paesi si sono messi in rapporto con noi, perché preoccupati di un pronunciamento contrario alla loro stessa tradizione. Nella conferenza sul futuro della Corte a Interlaken, nel febbraio del 2010, il ministro della Lituania criticò pubblicamente la sentenza.

Ma altri Paesi sono rimasti inerti…
Da vari pourparler è emerso che non era indifferenza, ma paura che una loro esplicita presa di posizione a nostro favore, nella prospettiva di una probabile conferma della sentenza di primo grado, finisse per avere ripercussioni negative nei loro ordinamenti per quanto riguarda la presenza della religione nello spazio pubblico.

Avete cercato di coordinare le memorie presentate dai vari Paesi?
Il Centre for Law and Justice di Strasburgo, diretto da Grégor Puppinck, ha organizzato un convegno sul tema al quale ha partecipato anche il professor Joseph Weiler. Abbiamo pensato che proprio lui fosse la persona più adatta a parlare in nome degli altri paesi che avevano presentato una memoria. Infatti, dopo il nostro ricorso, ci è stato concesso un riesame del caso con dibattimento davanti alla Grande Chambre.

Così a difendere il crocifisso è stato chiamato un giurista ebreo osservante…
Non era più una questione di una parte, ma in qualche modo universale: i simboli religiosi in quanto tali. Weiler, da parte sua, si è detto disposto a difendere la posizione degli altri Paesi gratuitamente, solo con il rimborso delle spese di viaggio e soggiorno.

È intervenuto a Strasburgo con la kippah in testa…
Sì. Poteva sembrare perfino una provocazione, se si pensa che la Corte europea ha sempre dato ragione ai Paesi che hanno proibito di indossare simboli religiosi nell’abbigliamento personale. Ma il coraggio alla fine paga sempre.
E la sentenza di venerdì ha dato ragione all’Italia.
Dimostra che la nostra posizione era giusta. Quella sentenza è tutta basata sulle nostre argomentazioni.

 

Pier Luigi Fornari
Avvenire – 20 marzo 2011

Recommended Posts

Nessun commento pubblicato


Aggiungi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *