(Tratto dal libro di L. Irigaray, Tra Oriente e Occidente. Dalla singolarità alla comunità, Manifesto Libri, Roma 2011, pp. 59-61)
Respirare è proprio il primo gesto di autonomia dell’ essere umano. Venire al mondo corrisponde a ispirare ed espirare da solo. Nell’utero riceviamo l’ossigeno attraverso il sangue della madre: non siamo ancora autonomi, non ancora nati.
Ma, di fatto, questo primo e ultimo gesto della vita, il respiro, lo dimentichiamo. Certamente, respiriamo, pena la vita. Ma lo facciamo in modo inconscio e imperfetto, e non prendiamo cura dell’ aria che ci circonda, benché sia il nostro primo nutrimento di vita. Ci asfissiamo con l’inquinamento, con lo stress, perfino con la prestazione sportiva per costringerci a respirare. Ma non ci incarichiamo, in modo cosciente e quotidiano, del nostro soffio vitale, della nostra vita in quanto tale.
Parliamo dei bisogni elementari come bisogni di mangiare, di bere, di vestir ci e ripararci, ma non di respirare. Eppure questo è la prima e più radicale necessità. E non siamo realmente nati, realmente viventi, autonomi, finché non assumiamo in modo conscio il nostro respiro.
Ora, il più delle volte restiamo passivi e subordinati a livello del respiro. Rimaniamo immersi in una sorta di placenta sociale che ci comunica un’ aria già espirata, già usata, non realmente pura né viva.
Certi orientali si ricordano del fatto che vivere equivale a respirare. E cercano di acquisire una vita autonoma praticando un respiro cosciente. Ciò procura loro a poco a poco una seconda nascita, una nascita assunta da sé e non voluta e procurata dai genitori o da una fisiologia che ci impone le sue leggi.
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Respirare in modo consapevole e autonomo equivale a farsi carico della propria vita, ad assumere la solitudine tagliando il cordone ombelicale, a coltivare la vita per sé e per gli altri.
Di fatto, finché non respiriamo da soli, non solo,viviamo male ma usurpiamo la vita degli altri per sopravvivere. Restiamo radunati in una sorta di massa, di tribù, in cui ogni individuo non ha ancora conquistato la propria vita ma si nutre di un respiro collettivo: sociale, culturale, di un soffio vitale inconscio di gruppo, il quale è in un primo tempo la famiglia.
Questo soffio collettivo rimane più vicino alla natura: alla madre alla donna, alla famiglia, o più vicino alla cultura: alla vita civile, alla vita sociale, più legato allora con il padre, con il mondo maschile nella nostra tradizione.
Siamo in qualche modo divisi fra due respiri: quello del soffio naturale e quello del mondo culturale, senza che esista un passaggio o un’ alleanza possibili fra questi due soffi, né in noi né fra noi. Così siamo cresciuti/e) nella prospettiva di una separazione fra la vita corporale e la vita dello spirito, dell’ anima, senza capire che l’anima non è altro che la vita del corpo coltivata fino a acquisire l’autonomia e il divenire spirituale del soffio vitale. La nostra cultura ci ha insegnato il più delle volte che occorre disprezzare e abbandonare il corpo per diventare spirituali. Il corpo sarebbe la prima natura che dovremmo superare per divenire spirito, per divenire anima.
Ma questa cultura non ci insegna a coltivare il respiro, al contrario di certe culture dell’estremo oriente, quella dello yoga per esempio. Tale cultura conduce il praticante a assumere la sua esistenza e a spiritualizzare il suo soffio vitale, conservandolo libero, disponibile, nutriente per lo stesso corpo, per gli altri.
Diventare spirituali equivarrebbe a trasformare il nostro
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soffio vitale elementare in un soffio più sottile al servizio del cuore, del pensiero, della parola e non soltanto al servizio della sopravvivenza fisiologica.
La nostra tradizione ci indica però l’importanza del soffio. Il racconto della Genesi ci spiega che Dio crea l’uomo con il suo soffio mescolato alla materia. Nel Nuovo Testamento, il figlio di Dio nasce da una donna fecondata dallo Spirito. Lo stesso Cristo scompare per lasciar posto allo Spirito «Se non vi abbandono, lo Spirito non avverrà per voi», dice ai suoi discepoli. Leggiamo pure nei Vangeli che è permesso peccare contro il figlio dell’uomo ma non contro lo Spirito. Cioè: tutti i peccati otterranno il perdono tranne quello contro lo Spirito.
Lo spirito è proprio la dimensione divina insuperabile. Per noi, come per gli yogis, il soffio è la via, il medium, per diventare spirituali. Ma abbiamo trascurato, e perfino dimenticato, questo cammino. E spesso facciamo confusione fra cultura e apprendistato di termini, di parole, di saperi, di poteri. Diventiamo così affannati, viviamo nell’ affanno senza ricordarci che essere colti equivale ad essere capaci di respirare, non soltanto per sopravvivere, ma per acquisire un soffio sottile, un soffio spirituale.
L’oblio del respiro nella nostra tradizione è quasi generale. Questo ha provocato in noi una separazione fra soffio vitale e soffio divino, fra corpo e anima.
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