di Gilberto Borghi |VinoNuovo 03 dicembre 2012
Michela: «Forse ci deve essere qualcosa in più nella fede, che i cristiani di qui non fanno vedere, se in Nigeria non mollano e accettano di rischiare la morte»
A colpirmi stavolta non è il solito atteggiamento di opposizione pregiudiziale al cristianesimo, o la richiesta classica di una religione più libera, o semplicemente l’indifferenza che una parte degli studenti si ritrova addosso. A colpirmi è la strana mescolanza di ammirazione e sorpresa che li ha colti.
Ho costruito un power point con le ultime sei notizie delle stragi nelle Chiese cristiane della Nigeria. E l’ho presentato alla classe. Mi aspettavo reazioni del tipo: “Farsi ammazzare per una messa è da scemi”, che già l’hanno scorso era venuta fuori in una discussione dopo i primi attentati. O un distaccato interesse formale, come si potrebbe trovare di fronte a tante altre stragi di innocenti a cui ci siamo abituati.
Invece mi hanno stupito. Ancora una volta. “Ma come prof, mi faccia capire. Questi da un anno rischiano di morire tutte le volte che vanno a messa e continuano ad andarci?” “Si, Lorenzo, è esattamente così”. “Non ci credo, prof. – interviene Michela – Cioè esistono ancora persone che sono disposte a morire per una fede che non si sa neanche bene se sia vera o inventata?” “Evidentemente – faccio io – per loro è molto vera e anche molto reale. E forse sperimentandola si sono resi conto che è davvero il senso della loro vita ed è fondata su un fatto altrettanto incredibile quanto il loro comportamento: che Gesù è risorto”. “Boh, se ci penso sul serio, prof, sono stupita” ancora Michela. “Ma in positivo o in negativo?” – le chiedo. “In positivo, certo. Cavolo, forse ci deve essere qualcosa in più nella fede, che i cristiani di qui non fanno vedere, se loro non mollano e accettano di rischiare la morte”.
Ecco proprio questa frase mi risuona dentro da qualche giorno. Soprattutto dopo l’ennesima, crudele e assurda strage di domenica 25 novembre, che non è entrata nemmeno nel mio power point. E di cui si fatica a trovare traccia nei siti “all news” appena il giorno dopo. “Ci deve essere qualcosa in più che i cristiani di qui non fanno vedere”. Cosa facciamo vedere qui? Cosa faccio vedere io? Un po’ di crisi mi arriva addosso. Non quella economica, ma quella del senso della mia e nostra, presenza tra di loro e nel mondo.
Intanto perché mi confermo nell’idea che già avevo da tempo: non basta più essere cristiani normali, ordinari, che ci provano dentro ai loro ambiti a rendere testimonianza di Gesù risorto. Che sperano, attraverso l’organizzazione e le strutture della Chiesa, di far “trasparire” Gesù. E io sono uno di questi. Forse davvero dovrei lasciarmi afferrare compiutamente dalla fede in Lui perché la gioia di questo incontro travalichi la mia pelle e i miei occhi e sia un segno che sconcerta e scuote, come la testimonianza di questi martiri. Ci sto lavorando, anzi cerco di far si che Lui ci lavori.
Secondo. Ho avuto modo di chiacchierare, pochi giorni fa, con il vescovo di Carpi mons. Francesco Cavina, sull’esperienza del terremoto, e su come quella Chiesa se la sta vivendo. Una cosa che mi ha colpito è stato il chiaro riconoscimento, da parte sua, che a volte le strutture della Chiesa “nascondono” la bellezza di Gesù Cristo invece di mostrarla. E che quando le strutture non ci sono più, paradossalmente l’amore e la condivisione si vedono di più.
“L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono” (Sal 48,13). Traduco rovesciando: la fede, di fronte alle tragedie della vita finalmente riesce a mostrare la “differenza cristiana”. Se parto da qui allora dovrei quasi concludere che come cristiani, in Occidente, stiamo troppo bene. Ce la passiamo troppo comoda. E allora le vere o presunte aggressioni al cristianesimo, che qui da noi ci affanniamo ad individuare, potremmo sentirle come occasione di grazia. E invece di combatterle dovremmo interrogarci su come queste aggressioni ci chiedono di dare testimonianza a Dio. Facile dirlo qui dietro uno schermo. Impossibile, almeno per me, dirlo di fronte a chi sul serio gioca la sua vita per Lui, in Africa ad esempio, e che, come Lui, non si tira indietro di fronte alla follia ideologica.
Michela alla fine lo ha ammesso: “credo davvero che se un cristiano fosse disposto a morire per Gesù ci potrei anche credere”. E allora le nostre, e anche le mie, elucubrazioni sulla nuova evangelizzazione impallidiscono di fronte alla forza di questi cristiani nigeriani. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Allora alcune domande mi si impongono. Noi qui, quanti modi potremmo avere per morire per Cristo e i suoi amici? Quanti di noi smetterebbero di andare a messa se in ballo ci fosse la nostra vita?
Paradossale lo so. Eppure andando a messa lo viviamo anche noi: “questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”…
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