“Abbiamo perso il senso dello stupore davanti alle meraviglie della vita. Forse essere nati cristiani non ha aiutato a sviluppare lo stupore davanti alla meraviglia di essere amati da Dio, un Dio che ha scelto di abitare le nostre vite. Abbiamo bisogno di aprirci, di liberare ogni cellula del nostro corpo per sentire la voce di Dio che ci chiama per nome e infonde il suo Spirito in noi. E dobbiamo ritornare a raccontarlo, con lo stesso stupore, al mondo”
Commento al vangelo della XXIII domenica del Tempo Ordinario – Anno B
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La Decapoli era una provincia dell’impero ai confini della Palestina, abitata da un miscuglio di popoli pagani, ognuno con i propri costumi, usanze e le proprie divinità. Non si trattava neanche di un popolo. Era solo una divisione amministrativa dell’Impero Romano.
Nel cuore di questa terra pagana, che non conosce il Dio d’Israele, Gesù guarisce un sordomuto. Per quelle culture pagane, che per loro natura, ripetevano anno dopo anno i loro rituali senza attendere nulla né dal cielo né dalla vita, si può capire come la loro prima reazione sia di stupore e meraviglia. Un sordomuto torna a sentire e a parlare.
Per noi che portiamo Dio nella nostra vita, che abbiamo ricevuto il sigillo del suo Spirito, lo stupore e la meraviglia dovrebbero essere disegnati sui nostri volti, iscritti nei nostri stili di vita. Dovrebbero costituire un mistico bagliore che emana dalle nostre persone.
Senza stupore, senza meraviglia, noi non possiamo trasmettere le vibrazioni della fede al mondo, non possiamo parlare di Gesù, perché siamo noi come dei sordomuti, credenti, sì, in Cristo ma rassegnati, come i pagani, al ripetersi e senza sbocco dei cicli della vita. Siamo cristiani ma non abbiamo più dentro di noi il fremito dell’attesa di chi aspetta il giorno finale della manifestazione di Cristo. Siamo immersi nei nostri dolori, quelli veri e quelli che ci creiamo noi. Siamo come dei sordi: abbiamo perso la capacità di “sentire” il mondo dentro l’anima, come una mamma sente il bambino che cresce dentro di sé e, pertanto, siamo muti perché non abbiamo una parola convincente da dire. Sì, sappiamo parlare, forse parliamo anche troppo ma sappiamo più come raggiungere l’uomo e la donna del nostro tempo. Finiamo anche noi per vivere una religiosità stanca, senza entusiasmo, ripetitiva e senza promessa. Ma il cristianesimo è “promessa”. È profezia. Gesù è colui che sconvolge il mondo e i destini degli uomini.
Occorre che torniamo a “sentire”: non solo con le orecchie ma con l’anima. Occorre sentire, più spesso, ciò che l’altro non dice. Occorre intercettare, con l’assistenza dello Spirito Santo, i moti silenziosi e gli stati d’animo di chi ci sta davanti. Occorre sentire la sua storia, le sue delusioni, le sue attese, le sue ansie, il suo grido spesso non espresso. Solo quando siamo riusciti, mediante l’ascolto, a entrare nel mondo dell’altro e a “sentirlo”, possiamo “parlare”. E parlare non è solo formulare argomenti e spiegare concetti. Parlare è trasmettere la forza di un terremoto interiore che scuote le fondamenta di chi, probabilmente non attende più nulla dalla vita e predisporlo al suo personale incontro di salvezza con Gesù.
Oggi Gesù si rivolge a ciascuno di noi, soffiando ancora una volta su di noi il suo divino Spirito e pronunciando quella meravigliosa parola: “Effatà!”, ossia “Apriti”. Apri la tua mente, svuotala da tutti i pensieri tossici, da tutte le preoccupazioni. Apri il tuo cuore. Apri la tua bocca ai linguaggi dello Spirito, sempre nuovi e adatti a ogni epoca. Aprilo alle lodi dell’Altissimo che ti ha dato la vita e ti ha regalato il mondo. E gli altri ti ascolteranno.
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