da La Repubblica del 25 novembre 2012
“SIAMO in piazza per protestare contro la legge che taglia i finanziamenti alla scuola pubblica: come facciamo ad andare avanti se nella nostra scuola non ci sono abbastanza banchi?”. Così uno studente di Torino giustificava la sua partecipazione allo sciopero europeo della scorsa settimana. Giusto un anno e mezzo fa siamo stati spettatori di una primavera araba con la quale assolutamente nessuno aveva fatto i conti. Di colpo, regimi autoritari crollarono sotto la spinta dei movimenti democratici di protesta organizzati dalla “Generation Global”. Dopo la primavera araba potrebbe arrivare un autunno, un inverno o una primavera europea? Gli scioperi delle ultime settimane ne sono stati i segnali?
Naturalmente, negli ultimi due o tre anni abbiamo visto ragazzi di Madrid, Tottenham o Atene protestare contro gli effetti delle politiche neo-liberali di risparmio e attirare l’attenzione sul loro destino di generazione perduta. Tuttavia, queste manifestazioni erano in qualche modo ancora legate al dogma dello Stato nazionale. La gente si ribellava nei singoli paesi alla politica tedesco- europea del rigore, adottata dai diversi governi. Ma quello che è accaduto la scorsa settimana parla un’altra lingua: 40 sindacati di 23 paesi hanno indetto una “giornata di azione e solidarietà”. I lavoratori portoghesi e spagnoli hanno chiuso le scuole, hanno paralizzato il traffico e hanno interrotto i trasporti aerei nel primo sciopero generale coordinato a livello europeo. Benché il ministro degli Interni spagnolo abbia parlato di «proteste isolate», nel corso dello sciopero solo a Madrid sono state arrestate 82 persone e 34 sono rimaste ferite, fra cui 18 poliziotti. Queste proteste diffuse in tutta Europa sono avvenute proprio nel momento in cui molti credevano che l’Europa avesse finalmente trovato la soluzione magica per la crisi dell’euro: la Banca centrale europea rassicura i mercati con il suo impegno ad acquistare, in caso di necessità, i titoli degli Stati indebitati. I paesi debitori – questa è la promessa – devono “soltanto” adottare ulteriori e ancor più incisive misure di risparmio come condizione per l’erogazione dei crediti da parte della Bce, e tutto andrà bene.
Ma i profeti tecnocratici di questa “soluzione” hanno dimenticato che qui si tratta di persone. Le politiche rigoriste con le quali l’Europa sta rispondendo alla crisi finanziaria scatenata dalle banche vengono vissute dai cittadini come un’enorme ingiustizia. Il conto della leggerezza con cui i banchieri hanno polverizzato somme inimmaginabili alla fine viene pagato dal ceto medio, dai lavoratori, dai pensionati e, soprattutto, dalla giovane generazione, con la moneta sonante della loro esistenza.
Se ora la Spagna, la Grecia e il Portogallo, ma anche l’Italia e la Francia vengono scosse da scioperi organizzati dai sindacati, non si deve interpretare ciò come una presa di posizione contro l’Europa. Le immagini dell’ira e della disperazione dicono piuttosto che è venuto il momento di invertire la rotta. Non abbiamo più bisogno di salvataggi delle banche, ma di uno scudo di protezione sociale per l’Europa dei lavoratori, per il ceto medio, per i pensionati e soprattutto per i ragazzi che bussano alle porte chiuse del mercato del lavoro. Questa Europa solidale non tradirebbe più i propri valori agli occhi dei cittadini. Perché essi vedano nell’Europa qualcosa che ha senso, il suo motto dovrebbe essere: più sicurezza sociale con un’altra Europa! La questione sociale è diventata una questione europea, per la quale non è più possibile nessuna risposta nazionale. Per il futuro sarà decisivo che questa convinzione si affermi. In effetti, se gli scioperanti e i movimenti di protesta prendessero a cuore l’“imperativo cosmopolitico”, cioè cooperassero in tutta Europa al di là delle frontiere e si impegnassero assieme non per meno Europa, ma per un’altra Europa, si creerebbe una nuova situazione. Un’“altra” Europa dovrebbe sostanzialmente essere costruita in base a un’architettura ispirata alla politica sociale e andrebbe rifondata democraticamente e dal basso.
Alla fine l’Europa – la crisi dei debiti dimostra proprio questo – dipende dal denaro dei singoli Stati. Pertanto, un’Europa democratica e sociale avrebbe bisogno di un fondo comune. Ora, non è difficile immaginarsi come reagirebbero i cittadini se dovessero rinunciare a una parte del loro reddito per questa “addizionale di solidarietà” o se si aumentasse l’imposta sul valore aggiunto affidando la gestione degli introiti supplementari alla Commissione europea. A questo punto si potrebbero prendere in considerazione la tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sulle banche o un’imposta europea sui profitti d’impresa. In questo modo, da un lato, si riuscirebbe ad addomesticare il capitalismo del rischio scatenato, addossando le responsabilità delle conseguenze della crisi a coloro che l’hanno provocata e, d’altra parte, l’Europa sociale diventerebbe finalmente una realtà tangibile ed efficace.
Se si formasse un’alleanza tra i movimenti sociali, la generazione europea dei disoccupati e i sindacati – da un lato – e gli architetti dell’Europa nella Banca centrale europea, i partiti politici, i governi nazionali e il Parlamento europeo – dall’altro -, nascerebbe un movimento possente, capace di imporre una tassa europea sulle transazioni finanziarie contro l’opposizione dell’economia e l’ottusità degli ortodossi dello Stato nazionale.
Se questo riuscisse, sarebbe addirittura possibile guadagnare due nuovi alleati per un’altra Europa: in primo luogo (per quanto ciò possa risultare paradossale), gli attori dei mercati finanziari globali, che forse acquisirebbero nuova fiducia di fronte a una chiara scelta di campo per l’Europa delle politiche sociali e investirebbero in essa, poiché sarebbe chiaro che c’è un’istanza che in caso di crisi risponde delle possibili perdite. E, in secondo luogo, le popolazioni degli Stati debitori oggi attratte dal nazionalismo e dalla xenofobia, che si impegnerebbero nel proprio interesse bene inteso per il progetto di un’Europa sociale e democratica. Una primavera europea, dunque?
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
Nessun commento pubblicato